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PAGINE * Home page * Chi sono/siamo * Libri * Interventi simbolici * Audio/Video * Rassegna stampa * Grazie! * Contatti POST IN EVIDENZA SCUDO (IN)CROCIATO, LA FINE E I TANTI RISVEGLI DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA IN UN PODCAST Il 18 gennaio 1994 a Roma, nel giro di poche ore e di 500 metri, si chiuse - almeno in apparenza - l'esperienza politica più rilevante d... LUNEDÌ 4 SETTEMBRE 2023 SUPPLETIVE MONZA, RITOCCO AL SIMBOLO DI CATENO DE LUCA (SUD CON NORD) La scomparsa di Silvio Berlusconi, lo scorso 12 giugno, ha generato profluvi di dichiarazioni, analisi e riflessioni (dalle quali questo sito si è scientemente astenuto). Tra i primi pensieri di chi appartiene alla singolar schiera dei #drogatidipolitica, tuttavia, se n'è affacciato uno in particolare, non cinico ma oggettivo: la morte di Berlusconi avrebbe creato le condizioni per le prime elezioni suppletive di questa XIX legislatura. Poiché l'ex Presidente del Consiglio era stato eletto in Senato nel collegio uninominale n. 6 - quello di Monza-Brianza - nel giro di qualche mese si sarebbe tornati alle urne per eleggere un nuovo membro dell'aula di Palazzo Madama. Fissate le elezioni suppletive per il 22 e il 23 ottobre, lo scorso 26 luglio era stato il vicepresidente del consiglio - e futuro segretario di Forza Italia, in quel momento coordinatore - Antonio Tajani a indicare il nome del candidato forzista e, presumibilmente, dell'intero centrodestra: Adriano Galliani, già senatore di Forza Italia nella XVIII legislatura, nonché dal 2018 amministratore delegato del Monza di proprietà Fininvest (dopo aver ricoperto per più di trent'anni la stessa carica nel Milan berlusconiano). Tre giorni dopo, il 29 luglio, aveva proposto la propria candidatura Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni e co-presidente di Eumans!: lui stesso - incassato l'apprezzamento di Azione, +Europa e Alleanza Verdi e Sinistra - , ancora pochi giorni fa ha chiesto il sostegno di Partito democratico e MoVimento 5 Stelle. Il 21 agosto anche Democrazia sovrana popolare ha annunciato di voler partecipare alle suppletive brianzole con Daniele Giovanardi, medico già direttore del pronto soccorso del policlinico di Modena: si tratterebbe della prima uscita del simbolo in una competizione di livello parlamentare (pur se ovviamente circoscritta a un territorio limitato). Già dall'inizio di agosto, tuttavia, la sfida si era arricchita di un altro potenziale concorrente, che ha attirato presto l'attenzione dei media: Cateno De Luca. L'attuale sindaco di Taormina - dopo esserlo stato di Messina e, prima ancora, di Santa Teresa di Riva e, all'inizio, della sua Fiumedinisi - si è detto tentato dalla campagna elettorale per affrontare temi non più di respiro locale, ma relativi "al governo dell'Italia", sottolineando di non sentirsi "da meno degli altri" (rivendicando anzi una "competenza senza confini"). Merita particolare attenzione il contrassegno con cui De Luca intende distinguere la propria candidatura. Si tratta, con tutta evidenza, di una variante del simbolo dell'ultima forza politica da lui creata, vale a dire Sud chiama Nord. Se la grafica è identica (fondo in prevalenza giallo con scritte nere e rosse, fascetta rossa obliqua e segmento bianco), il nome messo in evidenza è leggermente, ma significativamente diverso; non più "Sud chiama Nord", infatti, ma "Sud con Nord", con al di sotto il riferimento al candidato stesso (là dove il simbolo ufficiale ospita la frase "per le autonomie"). Posto che la riconoscibilità dell'emblema non è certo messa in dubbio - visto che addirittura la freccia all'interno della "D" di "Sud" è stata conservata - la modifica pare fondarsi su ragioni di opportunità: è vero che lo statuto di Sud chiama Nord recita all'art. 3, comma 2 che "il Partito, ispirandosi ai principi autonomistici e federativi dei territori, vuole definire ed attuare un concreto 'patto di solidarietà Sud Nord' con un nuovo quadro di politiche europee finalizzate ad eliminare le sperequazioni sociali economiche ed infrastrutturali tra il meridione ed il resto dei territori europei che non rendono competitivo il 'Sistema Italia'", ma nel momento in cui si va in un collegio del Nord a cercare voti, forse è più efficace uno slogan che inviti all'azione comune, piuttosto che uno in cui sembra prevalere la richiesta di interventi e investimenti al Sud (per portarlo allo stesso livello del Nord e renderlo competitivo). Resta vero che - come ricordato da De Luca a Monica Guerzoni del Corriere della Sera, all'indomani della sua proposta di candidatura, "Molti sottovalutano che in quel collegio il 50% degli elettori è meridionale"; spegnere un po' i toni del simbolo - insegna principale della campagna elettorale - per farli apparire meno agguerriti e "bellicosi", anche agli occhi dei monzesi-brianzoli, poteva però essere utile. Non è la prima volta, del resto, che il simbolo del più recente progetto di De Luca muta in sede elettorale. Superata la prima versione del simbolo (quella ancora condivisa con Dino Giarrusso, di fatto mai finita sulle schede e presentata solo da Giarrusso al Viminale lo scorso anno, emblema poi non ammesso), il nome era finito in posizione recessiva - sulla fascetta rossa - per dare più spazio allo slogan scelto per le elezioni politiche ("De Luca sindaco d'Italia") e per quelle regionali ("De Luca sindaco di Sicilia"). In seguito, come si è visto, il nome della forza politica - dal 24 novembre dello scorso anno ufficialmente inserita nel Registro dei partiti - è stato posto in primo piano su sfondo giallo (recuperando la freccina nella prima "D"), ma la fascia rossa è rimasta, stavolta per contenere il nome della città in cui la lista si presentava, il riferimento al candidato sindaco o allo stesso De Luca (anche quando non era lui a proporsi: è accaduto alle elezioni comunali di quest'anno a Siracusa). In qualche modo, le elezioni suppletive senatoriali di Monza costituiscono una prima volta per Cateno De Luca (il cui percorso è stato narrato di recente da Tommaso Labate sul Corriere). In tutte le elezioni precedenti, infatti, si era sempre presentato all'interno di una lista o comunque con il sostegno di almeno una forza politica: era accaduto con la Dc (con cui era stato eletto consigliere comunale a Fiumedinisi) e con il Ccd nel quale ha militato, con le liste civiche con cui si è proposto come aspirante sindaco dal 1998 in avanti; è accaduto con il Partito Democratico Cristiano di cui lui è stato nel 2003 vicepresidente nazionale (mentre presidente nazionale del partito, dopo la morte del fondatore Flaminio Piccoli, era Clelio Darida); è accaduto con il Movimento per l'autonomia (con cui è stato eletto deputato dell'Ars nel 2006 e nel 2008) e con Sicilia Vera (con cui è stato eletto sindaco di Santa Teresa di Riva nel 2012 e di nuovo deputato regionale nel 2017, nella lista presentata con l'Udc). Questa volta, invece, S-Cateno De Luca si presenterà da solo, con l'appoggio evidente del suo partito ma ufficialmente sostenuto soltanto dalle sottoscrizioni delle elettrici e degli elettori che vorranno appoggiare la sua candidatura. Sud chiama Nord, infatti, non rientra tra le forze politiche cui spetti l'esenzione dalla raccolta firme: aver centrato l'elezione di un deputato e di una senatrice (risultato non da poco) sarebbe sufficiente per correre senza sottoscrizioni alle elezioni europee - ovviamente se non cambiano le norme vigenti - ma non alle elezioni politiche (anche suppletive) di questa legislatura. Le persone elette, infatti, non sono sufficienti per costituire un gruppo parlamentare, mentre l'articolo 18-bis del testo unico per l'elezione della Camera richiede il gruppo in entrambe le aule parlamentari dall'inizio della legislatura (oppure che la forza politica che ha eletto un deputato o un senatore sia rappresentativa di una minoranza linguistica e di certo non è questo il caso). Per i partiti che non godono dell'esenzione, quindi, è il candidato stesso a firmare la propria dichiarazione di presentazione di candidatura. In base alle disposizioni vigenti, la candidatura e il rispettivo contrassegno (il quale, volendo, riporta il nome di De Luca con un rilievo persino troppo limitato, per essere ben visibile nella riproduzione da 3 centimetri di diametro) devono essere sostenuti da un minimo di 300 e un massimo di 600 sottoscrizioni di elettori dei comuni rientranti nel collegi uninominale, debitamente autenticate. I documenti per le candidature, inclusi i moduli contenenti le firme di sostegno per chi non è esonerato dalla raccolta, dovranno essere consegnati tra le ore 8 del 17 settembre e le ore 20 del 18 settembre. Per ora solo Galliani sembrerebbe esente dall'onere di sottoscrizione; non lo è di certo De Luca, come non lo è Giovanardi, ma non lo sarà nemmeno Marco Cappato se non inserirà nel contrassegno di candidatura una "pulce", se non di Azione, almeno del Pd o del M5S (Alleanza Verdi e Sinistra ha il suo gruppo solo alla Camera). C'è, in ogni caso, ancora tempo per la raccolta e, magari, anche per qualche sorpresa. Pubblicato da Gabriele Maestri alle 11:00 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: cateno de luca, Gabriele Maestri, I simboli della discordia, monza, per un pugno di simboli, simboli, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo, sud chiama nord, sud con nord, suppletive MERCOLEDÌ 23 AGOSTO 2023 SIMBOLI MAL DISPOSTI SULLA SCHEDA: A CAMPOBELLO DI LICATA SI RIVOTA Fin dall'inizio questo sito ha fatto dei simboli dei partiti e dei contrassegni elettorali il principale tema di analisi, a volte discutendo espressamente di questo, in altri casi partendo dagli emblemi politico-elettorali per diffondersi a temi vicini e connessi. Di norma ci si concentra sul contenuto dei simboli, anche in ambito elettorale, ma se ci si occupa di elezioni talvolta è importante anche valutare il contesto in cui i contrassegni sono inseriti e, in particolare, la loro posizione e disposizione. La considerazione diventa inevitabile, se si considera il caso che da alcuni giorni - prima sui media locali, poi su quelli nazionali - sta ponendo sotto i riflettori il comune di Campobello di Licata, in provincia di Agrigento. Lì il 12 giugno 2022 si sono svolte le elezioni amministrative: com'è noto, in Sicilia si applicano norme speciali, dettate dal decreto legislativo del presidente della Regione n. 3/1960 e dalla legge regionale n. 35/1997, più volte modificata (uno degli interventi più noti è quello apportato nel 2016, che ha previsto la vittoria al primo turno nei comuni "superiori" per il candidato sindaco che raccolga almeno il 40%). Il 16 agosto è stata pubblicata la sentenza n. 531/2023 del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana che ha dichiarato nulle le elezioni comunali dello scorso anno, rendendo dunque necessario ripetere tutte le operazioni elettorali. La decisione dell'organo di giustizia amministrativa di secondo grado per la Sicilia, che ha ribaltato la decisione di primo grado presa dal Tar Palermo lo scorso anno, non è legata a errori nei conteggi o a candidature indebitamente ammesse o escluse, bensì a un errore rilevante nella stampa delle schede, in particolare nella disposizione delle candidature a sindaco e dei relativi contrassegni: si tratta di un fatto singolare - anche se nemmeno così raro - e anche per questo è il caso di analizzare meglio i fatti e le decisioni. I FATTI (PER QUANTO È DATO SAPERE) In vista delle elezioni amministrative del 12 giugno 2022 relative al comune di Campobello di Licata - al quale si applica la disciplina dettata per i comuni fino a 15mila abitanti dettata dalle norme siciliane - si erano presentati cinque aspiranti sindaci, sostenuti da altrettante liste. L'ordine sui manifesti e sulle schede è stato determinato ovviamente da sorteggio, previsto dalle norme in vigore (art. 7, comma 9 l.r. n. 7/1992): si erano così indicati al primo posto Andrea Mariani (Andrea Mariani sindaco Campobello 2.2), al secondo Antonio Pitruzzella (Antonio Pitruzzella sindaco - PD e M5S), al terzo Angelo La Greca (Angelo La Greca sindaco - Fonte di vita aiutalo a crescere insieme), al quarto Michele Termini (Corri Campobello - Michele Termini sindaco) e al quinto e ultimo Vito Terrana (Alleanza civica - Vito Terrana sindaco). Quanto alle schede elettorali, le norme generali sono dettate dall'art. 16 del d.lgs.P.Reg. n. 3/1960 ("Le schede sono di tipo unico e di identico colore; sono fornite a cura dell'Assessorato regionale degli enti locali con le caratteristiche essenziali del modello descritto nelle annesse tabelle a e b, vistate dall'Assessore per gli enti locali"), mentre i modelli concreti di scheda sono stabiliti da un apposito decreto assessoriale (n. 86 del 24 marzo 2022 dell'Assessorato alle autonomie locali e della funzione pubblica. Il testo dell'allegato I) al decreto così recita: "La scheda è suddivisa in quattro parti uguali: la parti prima e seconda contengono gli spazi per riprodurre, verticalmente ed in misura omogenea, il rettangolo contenente il nominativo del candidato alla carica di sindaco, con accanto il contrassegno della lista. / Sulla destra sono stampate accanto a ciascun contrassegno due righe per l’espressione di due preferenze per due candidati alla carica di consigliere comunale della lista votata. / [...] Le parti terza e quarta vengono utilizzate secondo gli stessi criteri previsti per le parti prima e seconda, in modo da comprendere un numero complessivo di otto contrassegni. / Quando i contrassegni da inserire sono da 9 a 10, gli spazi vengono ridotti in modo che ciascuna parte ne contenga 5, ad iniziare dalle parti prima e seconda”. Il modello di scheda per i comuni inferiori è indicato dalla tabella A (riportata qui a fianco) e, come si può vedere, riporta fino a quattro candidature "impilate" in verticale. Fac simile diffuso dalla lista Pitruzzella sindaco Sulla base delle indicazioni del decreto assessoriale n. 86/2022, dunque, i primi quattro candidati sindaci (con relativi contrassegni), quindi da Mariani a Termini, dovevano essere "impilati" in verticale nella parte prima-seconda (quindi nella parte sinistra), mentre il quinto aspirante primo cittadino, Terrana (anche lui con il suo contrassegno di lista) doveva trovarsi subito a destra, nell'area superiore della terza-quarta parte. Proprio così, infatti, sono stati concepiti i fac simile di scheda prodotti e diffusi dai singoli candidati durante le quattro settimane di campagna elettorale. Fac simile della vera scheda sbagliata (dal manifesto) Il 12 giugno 2022, invece, a urne ormai aperte, è emerso che la Prefettura di Agrigento aveva fatto stampare le schede secondo un modello organizzato diversamente: come si legge nella sentenza emessa dal Tar l'anno scorso, "tutti e cinque gli spazi (sindaco e lista) erano riportati in successione nel solo lato sinistro. Di tal ché gli elettori, i quali erano convinti di trovare -in base al facsimile riprodotto nei volantini delle varie formazioni distribuiti durante la campagna elettorale - nell’ultimo rigo a sinistra la predisposizione per votare il candidato sindaco Michele Termini e la lista al medesimo collegata 'Corri Campobello', hanno trovato invece il candido sindaco Vito Terrana e la lista 'Alleanza civica'". Il risultato finale ha visto prevalere Antonio Pitruzzella con 1452 voti (25,57%), a una distanza minima da Vito Terrana (1434 voti, 25,26%) e Michele Termini (1414, 24,9%), mentre il distacco era maggiore rispetto ad Andrea Mariani (1115 voti, 19,64%) e Angelo La Greca (263 voti, 4,63%). Subito dopo la fine dello scrutinio, peraltro, in un filmato Termini - futuro aspirante senatore per Italia viva - aveva preannunciato un ricorso al Tar "sulla distribuzione dei singoli voti, perché ci sono state molte irregolarità", riferendosi a quanto era avvenuto presso i seggi. Il 12 luglio 2022, in effetti, due cittadini elettori (vicini a Termini) hanno presentato ricorso al Tar di Palermo, puntando però il dito non tanto sulle operazioni di scrutinio e attribuzione dei voti, quanto piuttosto sulla stampa delle schede. In particolare, il ricorso era configurato come atto a tutela "dell’interesse pubblico generale al corretto svolgimento del procedimento elettorale", ritenendo che le schede "non conformi allo schema" previsto dalle norme non potessero riportare voti validi ("Sono nulli i voti contenuti in schede [...] che non sono quelle prescritte dall'art. 16", anche se probabilmente il legislatore si riferiva a schede "anomale" anche perché prodotte da stampatori diversi da quelli ufficiali) e che l'errore di stampa avesse "influenzato l'espressione di voto del corpo elettorale determinando uno sfasamento con la sua effettiva volontà". Elettrici ed elettori, insomma, sarebbero stati disorientati e ciò emergerebbe dalle 91 schede votate nelle quali - come verbalizzato in sede di scrutinio dai rappresentanti della lista 4, che doveva trovarsi "in basso a sinistra" mentre si è trovata in altra posizione - erano stati indicati voti di preferenza per candidati al consiglio comunale accanto a una lista diversa dalla loro. LE DECISIONI CONTRASTANTI DEI GIUDICI Nella sentenza di primo grado - pubblicata il 5 ottobre dello scorso anno - il Tar Palermo aveva innanzitutto confermato che ogni cittadino elettore poteva impugnare l'esito del voto amministrativo e la proclamazione degli eletti, "a tutela dell'interesse generale alla libera e corretta espressione del voto, proprio dell'intero corpo elettorale": non occorreva dunque - come invece sosteneva il comune di Campobello di Licata - che i ricorrenti agissero a tutela di un proprio interesse personale o prospettassero di avere espresso in modo errato il loro voto proprio a causa della scheda stampata in quel modo. Nonostante questo, il ricorso era stato respinto (con tanto di condanna a pagare le spese processuali del comune). Per i giudici amministrative di prime cure, da un lato, le norme sulla validità o nullità dei voti riguardavano il destino del singolo voto espresso sulla base del comportamento del rispettivo elettore (dunque alla possibilità di far emergere l'effettiva volontà della persona che vota e all'eventuale presenza di comportamenti volti deliberatamente a far riconoscere il voto o ad alterarne la genuinità, cosa che avviene per esempio usando schede diverse da quelle "ufficiali", perché prodotte da altri soggetti e, in quanto tali, di provenienza "non [...] certificata dal visto assessorile"); non era invece prevista espressamente la nullità di tutti i voti espressi su schede "ufficiali" (oltre che correttamente bollate e vidimate) ma non rispettose dei decreti assessoriali sul piano grafico. In mancanza di una previsione apertis verbis di un'eccezione tanto rilevante al principio di conservazione del voto, per il collegio non era giusto dare spazio a "una così grave e generalizzata ipotesi di nullità, comportante la radicale invalidità non di singole espressioni di voto bensì la caducazione dell’intera elezione" (secondo il principio per cui le norme eccezionali non si possono applicare a casi analoghi non tipizzati). Dall'altro lato, i giudici avevano richiamato il principio generale in materia elettorale in base al quale "tra le molteplici e possibili irregolarità sono rilevanti solamente quelle sostanziali, ovvero quelle che possano influire sulla sincerità e sulla libertà di voto, atteso che la nullità delle operazioni di voto può essere ravvisata solo quando sia stato impedito il raggiungimento dello scopo al quale l'atto è preordinato" (così si leggeva, per esempio, in Consiglio di Stato, sez. II, sent. n. 984/2022). Per loro, però, non si poteva "sostenere seriamente che l'elettore chiamato ad esprimere il proprio voto indichi la propria scelta inconsapevolmente e meccanicamente - come fosse un automa - solo sulla scorta della posizione del simbolo della lista o del nominativo del candidato sindaco (chiaramente distinguibili dalle altre liste e dagli altri candidati) nella scheda elettorale". Non c'erano nemmeno, per il collegio, indizi sufficienti a sostenere che la diversa "organizzazione" della scheda avesse influito sulla genuina espressione dei voti: i 91 casi di preferenze abbinate in modo sbagliato (su un totale di 5806 votanti) sarebbero stati relativamente pochi e, comunque, non per forza legati senza dubbi all'errore nella progettazione della scheda (ma magari "alla volontà, possibile, di esprimere un voto disgiunto", pur se non contemplato in quel sistema elettorale). Evidentemente insoddisfatto dall'esito della sentenza di primo grado, il 24 novembre 2022 (poco dopo la notifica della pronuncia) uno dei due ricorrenti ha scelto di impugnare la decisione del Tar presso il Consiglio di giustizia amministrativa. Secondo la sua difesa, infatti, la scelta della Prefettura di Agrigento di apporre il "visto si stampi" su una bozza di scheda difforme dal "modello legale" predisposto dall'assessorato competente (e che, come tale, non avrebbe presentato "le caratteristiche essenziali atte a garantire la regolarità del procedimento elettorale e la corretta e genuina formazione ed espressione della volontà del corpo elettorale") avrebbe compromesso il diritto di voto dell'intero corpo elettorale, a causa di "una inammissibile deviazione delle tassative prescrizioni in materia di composizione e stampa della scheda elettorale". Benché il comune abbia ripetuto le sue tesi sul merito già accolte dal Tar, l'organo di secondo grado ha deciso di accogliere il ricorso: se nessuno ha contestato il fatto che il 6 giugno 2022 (meno di una settimana prima del voto) la Prefettura avesse dato il "visto si stampi" - per poi far distribuire ai seggi di Campobello - a una scheda elettorale "che si è discostata parzialmente – ma, certamente, in modo che non può considerarsi irrilevante – dalle “caratteristiche essenziali” del modello di scheda di votazione fissato" col decreto assessoriale n. 86/2022, il collegio di seconde cure non ha condiviso le conclusioni del Tar né sul piano formale né su quello sostanziale. In primo luogo, per i giudici non si può superare il dato letterale della disposizione (dettata come eccezione rispetto al principio di conservazione della volontà dell'elettore) "sono nulli i voti contenuti in schede [...] che non sono quelle prescritte dall'art. 16” del d.lgs.P.Reg. n. 3/1960: il testo sicuramente si riferisce a una scheda "non ufficiale" (o "materialmente falsa, ossia 'stampata in proprio'"), ma l'espressione non può non comprendere anche l'ipotesi (improbabile e imprevedibile, ma che qui è accaduta) di una scheda fornita dalla Prefettura ma "stampata in modo essenzialmente difforme da come prescritto". I voti espressi su tali schede, quindi, sarebbero da considerare - sia per le parole usate, sia secondo un ragionamento logico, sia in base ai fini di tutela della genuinità del voto - ugualmente nulli, anche se in quel caso non ci sarebbe alcuna responsabilità dell'elettore (che, anzi, sarebbe la vittima). Per il collegio non occorre fare altre verifiche e da queste considerazioni discende direttamente la necessità di annullare e ripetere il voto: a suo dire "il legislatore non ha considerato possibile, né comunque in alcun modo tollerabile, che siano mandate in stampa schede così frontalmente difformi dal modello approvato"; d'altra parte, "non avrebbe alcun senso prescrivere l’approvazione di un modello da parte dell'Assessore, se poi fosse priva di conseguenze pratiche anche la violazione delle sue 'caratteristiche essenziali'". Per i magistrati, poi, il legislatore avrebbe anche potuto non stabilire quanti contrassegni di lista fossero da prestampare su ciascuna parte della scheda, ma visto che lo ha fatto anche quell'elemento si configura come "essenziale", dunque gli uffici della Prefettura dovevano essere diligenti per verificare il rispetto anche di quel requisito indicato dal decreto assessoriale, prima di dare il "Visto si stampi"). I 91 casi di abbinamento scorretto di preferenze a liste in cui quelle persone non erano candidate, se per il Tar e per il comune erano pochi, per il Consiglio di giustizia amministrativa erano indice del disorientamento e della confusione sorti in parte degli elettori e potevano essere ricondotte alla difformità della scheda rispetto al modello - conforme al decreto assessoriale - impiegato sul materiale elettorale diffuso; in più quei casi anomali "assumono un rilievo significativo se si considera il limitato scarto di voti tra il candidato Sindaco eletto e gli altri due candidati che seguono per numero di voti attribuiti" (anche se qui non c'è spazio per eventuali "prove di resistenza", cioè per valutare l'impatto dei casi dubbi sui dati elettorali ufficiali, perché in questo caso si contesta "un aspetto generale dell’operazione elettorale, quale l'irregolarità delle schede utilizzate dagli elettori" e comunque il dato testuale della disposizione sulla nullità del voto su schede difformi non lascerebbe dubbi) GLI EFFETTI DELLA SENTENZA DI SECONDO GRADO Per le ragioni appena ricordate, la sentenza ha accolto il ricorso, dichiarando nulli tutti i voti espressi, con "conseguente annullamento delle elezioni", condannando alle spese la Prefettura di Agrigento per entrambi i gradi di giudizio (anche considerando che l'ente non si è sostanzialmente difeso), mentre le spese sono state compensate con il Comune di Campobello di Licata. Cosa accadrà ora? La domanda è tutt'altro che infondata, sotto vari aspetti. Innanzitutto la Prefettura ha avviato un'indagine informale interna ("Stiamo cercando di capire come mai, all’epoca, sia stato fatto quello che il Cga ha considerato un errore - ha dichiarato ai media il prefetto Filippo Romano, insediatosi dopo le elezioni in questione -. Il Tar non lo aveva considerato tale, ma il Cga ha deciso così ed è una sentenza definitiva: è quindi un errore, dobbiamo prenderne atto e correggere per il futuro"); la sentenza, tra l'altro, è stata trasmessa alla Procura regionale della Corte dei conti "per gli eventuali profili di competenza in relazione ai suoi effetti". Si dovrà poi ripetere il voto dichiarato nullo, anche se non è ancora chiaro quando: posto che si attende la nomina del commissario da parte dell'assessore regionale per le autonomie locali e la funzione pubblica, è già stato emesso il decreto assessoriale per indire per il 22 e il 23 ottobre i comizi elettorali per i comuni di San Giuseppe Jato (Pa), Bolognetta (Pa) e Calatabiano (Ct), sciolti per infiltrazioni mafiose nel 2021. La data del voto, dunque, potrebbe non coincidere con queste (anche se in teoria un nuovo decreto potrebbe indire le elezioni nelle stesse date). Resta anche da capire l'estensione esatta della nullità: il sindaco uscito eletto dal voto dichiarato nullo sembra non essere certo della sua ricandidatura ("La decisione non sarà personale, ma verrà concertata con il partito. Considerato che la sentenza è inappellabile, per me il terzo grado di giudizio sarà dato dal responso degli elettori. Ci rimetteremo, spero unanimemente, in campo, rifaremo la battaglia e saranno i cittadini di Campobello a dire se l'amministrazione Pitruzzella merita o meno di proseguire il suo mandato"). Il dispositivo parla di "necessità di integrale rinnovo delle operazioni elettorali", ma occorre sottolineare che lo stesso ricorrente aveva chiesto la "ripetizione e/o rinnovazione delle predette operazioni di voto presso tutte la Sezione elettorali del Comune di Campobello di Licata", il che farebbe pensare invece che non si debba ripartire dalla presentazione delle candidature - il che, tra l'altro, allungherebbe di certo i tempi del ritorno alle urne - ma dall'inizio della campagna elettorale, conservando come validi tutti gli atti collocati prima della stampa delle schede. Nessuna contestazione infatti risulta essere stata mossa all'offerta elettorale (non si sa di liste la cui ammissione o esclusione sia stata messa in dubbio), dunque sarebbe irragionevole - e inutilmente dispendioso - ripetere tutto il procedimento elettorale preparatorio. Il dubbio in ogni caso è legittimo: quando nel 1990 a Pisa il simbolo della lista Per il Litorale fu sostituito per errore da quello del Pci alle elezioni circoscrizionali si rivotò con le stesse liste (benché a livello nazionale il Pci avesse cambiato nome e simbolo) e gli stessi candidati; quando nel 1994 fu confuso in sede di stampa il contrassegno di una lista a Piscinas (Sud Sardegna, allora in provincia di Cagliari), invece, il procedimento fu ripetuto per intero. Si deve dare atto che, in base all'art. 56, comma 2 del d.lgs.P.Reg. n. 3/1960, "Divenuta definitiva la pronuncia giurisdizionale di annullamento, l'elezione avviene nel rispetto della procedura indicata dalla vigente legge elettorale e nei tempi previsti dal vigente ordinamento amministrativo degli enti locali. Nell'ipotesi di consultazione parziale degli elettori restano ferme [...] le liste dei candidati": non essendo in presenza di una consultazione parziale, sembrerebbe di dover ripetere l'intero rito dall'inizio. Da ultimo, si registrano polemiche legate al fatto che a demolire il voto del 2022 sia un organo sì giurisdizionale, ma nel quale siedono anche due figure "laiche", di nomina politica, il che ha fatto sospettare qualcuno (incluso il non-più-sindaco, stando all'intervista rilasciata oggi al manifesto) che si fosse davanti a una "sentenza politica". Su questo punto non ci si esprime; ci si sofferma piuttosto sulle diverse interpretazioni e ricostruzioni normativo-sociali date dai due collegi di giudici. Il Tar ha seguito una lettura "sostanziale" delle disposizioni, lette anche in chiave di "economia procedimentale": l'offerta elettorale non era stata alterata, il diverso disegno della scheda aveva una portata limitata, non tale da influenzare in modo percettibile l'esito del voto (e comunque non così grave da giustificare la demolizione di un risultato e la ripetizione del voto, con relativo esborso di nuove risorse); in più, ha cercato di adottare una lettura "evolutiva" del cosiddetto "elettore di media diligenza", rifiutando l'immagine - ritenuta degradante - della persona che in cabina elettorale vota solo, soprattutto o innanzitutto in base alla posizione del nome o del simbolo sulla scheda. Il Consiglio di giustizia amministrativa, invece, ha proposto una lettura decisamente attenta alla forma delle disposizioni, cioè del tutto aderente al senso "fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" (così recita l'art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, che precedono il codice civile), argomento che prevale su ogni altro, anche sull'intenzione del legislatore. Considerando una "caratteristica essenziale" della scheda elettorale anche la disposizione di candidature e contrassegni, in concreto il collegio di seconde cure ha fatto capire che non è ancora sparito - e forse non solo in Sicilia - il mondo in cui c'è chi vota "in alto a sinistra", "in basso a destra" o - come stavolta - "in basso a sinistra" (e questo anche se ormai da più di trent'anni l'ordine dei simboli sulla scheda è determinato dal sorteggio e non dall'ordine di deposito delle liste). Poco importa, a questo punto, il motivo per cui le cinque candidature sono state "impilate" tutte a sinistra: può essere stato fatto per distrazione, per maggiore eleganza grafica o - perché no - per seguire l'idea (della tipografia, più che della Prefettura) di mettere tutti i concorrenti sullo stesso livello e non dare all'ultimo candidato, vista la sua posizione "isolata" a destra, un rilievo diverso rispetto agli altri. Se una lezione si può trarre da questo caso, per concludere, è che occorre prendere sul serio tutte le disposizioni e le norme in vigore in materia elettorale: si possono non condividere, si possono criticare (e in certi casi è più che comprensibile), ma finché ci sono vanno rispettate. Vale per chi vuole concorrere, ma vale e soprattutto anche per chi deve applicarle perché la "macchina elettorale" funzioni a dovere. Pubblicato da Gabriele Maestri alle 23:12 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: amministrative 2022, campobello di licata, elezioni, Gabriele Maestri, I simboli della discordia, per un pugno di simboli, scheda, simboli, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo LUNEDÌ 21 AGOSTO 2023 CUFFARO, CESA, ROTONDI E ALTRI: ANCORA SUL SIMBOLO DELLA DC IN TRIBUNALE Lo si è ricordato spesso in questo sito, ma tocca ripetersi ancora: le liti legate alla Democrazia cristiana sembrano non conoscere la parola fine e, per questo, le notizie più recenti non sono mai "ultime", ma almeno "penultime". Se n'è avuta l'ennesima prova il 17 agosto, quando le agenzie hanno fatto sapere che il Tribunale di Roma il giorno prima si era espresso su un ricorso presentato dalla Dc guidata da Salvatore "Totò" Cuffaro nei confronti dell'Udc (Unione dei democratici cristiani e di centro), partito il cui segretario è dal 2005 Lorenzo Cesa e che fin dalla sua nascita nel 2002 schiera in primo piano lo scudo crociato con la scritta "Libertas" storicamente usato dalla Dc (e giusto un po' rivisto): in base a quanto diffuso dai media, il giudice designato avrebbe riaffermato il diritto dell'Udc a usare lo scudo crociato, respingendo le richieste di Cuffaro. La notizia ha inevitabilmente prodotto commenti e altre reazioni, alcune delle quali meritano la stessa attenzione del fatto alla loro base. Come puntualmente accade quando si parla di Democrazia cristiana, però, è fortissimo il rischio di fare o creare confusione, magari considerando direttamente coinvolto dalla decisione del giudice anche chi da questa non è minimamente citato. Vale dunque la pena cercare di capire bene cos'è stato chiesto, cos'è stato deciso e che effetti possono discenderne. Continua a leggere...» Pubblicato da Gabriele Maestri alle 23:50 2 commenti: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: Dc, Democrazia cristiana, Gabriele Maestri, Gianfranco Rotondi, I simboli della discordia, per un pugno di simboli, scudo crociato, simboli, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo, totò cuffaro, Udc MARTEDÌ 11 LUGLIO 2023 SCUDO (IN)CROCIATO, LA FINE E I TANTI RISVEGLI DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA IN UN PODCAST Il 18 gennaio 1994 a Roma, nel giro di poche ore e di 500 metri, si chiuse - almeno in apparenza - l'esperienza politica più rilevante della Repubblica italiana e si consumò una prima frattura nell'area che in quelle idee si era riconosciuta fino a quel momento. Nel pomeriggio, all'Istituto Sturzo in via delle Coppelle, si tenne l'evento in cui la Democrazia cristiana annunciò ufficialmente di volersi chiamare da lì in avanti Partito popolare italiano, un nome antico per dare nuova vita agli ideali, sperando di ripararli dal fango e dall'estinzione; la mattina, nel vicino Grand Hotel de la Minerve (appunto in piazza della Minerva, a quattro minuti a piedi da Piazza del Gesù), si erano poste le basi per un nuovo partito di democratici cristiani - il Centro cristiano democratico, appunto - con una collocazione politica volutamente diversa. In quel giorno era plasticamente finita l'unità politica dei cattolici italiani, che per mezzo secolo aveva trovato incarnazione nella Democrazia cristiana e nel suo simbolo, lo scudo crociato. Quella fine, in realtà, si è rivelata un inizio: dal 1994, infatti, ha preso avvio una saga pressoché infinita di liti, scissioni, scomposizioni e tentate ricomposizioni (talora riuscite, molto più spesso no), duelli in tribunale e sulle schede elettorali, per non parlare dei vari disegni volti a ridestare un partito che alcuni soggetti ritengono dormiente. Chi segue questo sito ha incontrato spesso le ultime puntate di questa vicenda e, a volte, anche alcuni post per cercare di riassumere una storia tanto affascinante quanto complicata. Proprio perché affascinante e complicata, però, questa storia merita di essere raccontata, oltre che per iscritto, anche a voce. Ecco perché il sito Isimbolidelladiscordia.it da oggi propone sulla piattaforma Spreaker il podcast Scudo (in)crociato, che con cadenza quindicinale racconterà le vicende che hanno portato alla fine della Democrazia cristiana - perché per capire il 1994 occorre partire dalla proposta del nuovo-vecchio nome nel 1993 e, ancor prima, dai referendum elettorali del 1991 e del 1993 - e, soprattutto, quelle che sono venute dopo. Perché, se tanti democristiani sono rimasti (anche se il tempo, inesorabile, assottiglia la fila), da oltre un quarto di secolo si combatte una guerra inesauribile sulla vecchia denominazione e sul simbolo storico. La storia viene raccontata attingendo soprattutto all'archivio preziosissimo e sterminato di Radio Radicale, che ha concesso - grazie al direttore Alessio Falconio - l'uso del proprio materiale: sarà così possibile vivere più da vicino la diaspora democristiana e gli scontri elettorali e giudiziari nel nome della Dc. Nella consapevolezza che non ci sarà un'ultima puntata, dovendosi sempre aspettare un nuovo episodio per raccontare altri tentativi, altri scontri, altri simboli. Pubblicato da Gabriele Maestri alle 13:10 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: Dc, Democrazia cristiana, Gabriele Maestri, I simboli della discordia, per un pugno di simboli, podcast, scudo crociato, scudo incrociato, simboli, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo VENERDÌ 23 GIUGNO 2023 MOLISE, SIMBOLI E CURIOSITÀ SULLA SCHEDA Mancano ormai pochi giorni all'apertura delle urne in Molise per l'ultimo appuntamento con le elezioni regionali per il 2023 (ovviamente salvo sorprese al momento non preventivabili). Certamente la regione cambierà guida: Donato Toma, presidente uscente della giunta, non si è ricandidato, o meglio non è stato riproposto dal centrodestra, che punta dunque su un altro aspirante presidente, Francesco Roberti. Se la vedrà con altri due candidati: Roberto Gravina, espressione unitaria dell'alleanza tra M5S e centrosinistra, ed Emilio Izzo, candidato alternativo e "altro", a capo della lista-movimento Io non voto (i soliti... noti). Cinque anni fa - le elezioni si celebrano alla scadenza naturale della legislatura - i concorrenti erano quattro (in rappresentanza di centrosinistra, centrodestra, M5S e CasaPound Italia). Quanto alle liste regionali, anch'esse sono in calo: 14, rispetto alle 16 del 2018. Prima di passare all'analisi dei contrassegni di lista, è il caso di ricordare che la legge elettorale molisana prevede che anche le candidature a presidente della giunta regionale siano accompagnate da un contrassegno (unico, non essendo possibile farsi sostenere dall'insieme dei simboli delle liste). * * * EMILIO IZZO 1) IO NON VOTO (I SOLITI... NOTI) Il sorteggio ha collocato in prima posizione la candidatura di Emilio Izzo, di cui questo sito si è appena occupato, proprio a partire dal simbolo adottato dall'unica lista presentata a sostegno, Io non voto (i soliti... noti). Si rimanda dunque a questo articolo per sapere di più del progetto di candidatura dell'ex consigliere provinciale di Isernia e combattivo sindacalista all'interno del Ministero della cultura. In questo caso ci si limita a dire che il simbolo con il maialino nero su fondo rosso è impiegato da Izzo anche per distinguere la propria candidatura, dunque è riportato due volte sulla scheda elettorale, con un messaggio del tutto coerente. ROBERTO GRAVINA Seconda candidatura estratta è quella di Roberto Gravina, attuale sindaco di Campobasso (sostenuto dal M5S ed eletto nel 2019, quindi in scadenza tra un anno) e aspirante presidente sostenuto da una coalizione che unisce centrosinistra e MoVimento 5 Stelle. Il contrassegno presentato per sostenere la sua candidatura ha in primo piano l'espressione "Gravina presidente" di colore blu, sotto la quale si riconosce la sagoma del Molise di colore giallino. Quella tinta, insieme alla circonferenza rossa e al segmento circolare inferiore con il riferimento all'anno di votazione (anche se è colorato di verde e non di rosso) può rimandare alla struttura del simbolo del M5S e far pensare a una prevalenza all'interno della coalizione, ma non è per forza indicativo. 2) COSTRUIRE DEMOCRAZIA La coalizione che sostiene Gravina è composta da 6 liste. La prima estratta è denominata Costruire democrazia. Per chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica di livello superiore la visione del simbolo non rappresenta una novità completa: l'emblema con il fiore bianco era già stato avvistato sulle schede molisane del Senato nel 2013 e su quelle per le regionali di quel territorio nel 2011 e nel 2013 (il primo anno nella coalizione di Di Laura Frattura abbinata al gruppo Partecipazione democratica, il secondo in una coalizione alternativa con Fare per Fermare il declino e Democratici per il Molise, a sostegno della candidatura di Massimo Romano); in entrambe le occasioni elesse un consigliere. Non stupisce dunque che il capolista di quella formazione (nata nel 2009) sia proprio Romano, eletto in regione nel 2011. 3) MOVIMENTO 5 STELLE La seconda lista della compagine che appoggia la candidatura di Gravina è quella presentata dal MoVimento 5 Stelle: la sua presenza non può certo stupire, trattandosi della forza politica con cui Gravina è stato eletto sindaco di Campobasso quattro anni fa (e con cui si era già proposto alle amministrative precedenti). Il simbolo schierato è il secondo emblema ufficiale indicato dallo statuto, ma è quello ormai usato costantemente da quando il M5S ha scelto di divenire ufficialmente un partito: sotto la grafica tradizionale, un segmento circolare rosso ospita il riferimento al 2050 come anno dell'auspicata neutralità climatica. 4) MOLISE DEMOCRATICO E SOCIALISTA La coalizione a sostegno di Gravina prosegue con Molise democratico e socialista, formazione elettorale che unisce le forze di Molise democratico e solidale (gruppo legato all'ex consigliere Antonio D'Ambrosio) e del Partito socialista italiano. Il nome della lista è sostanzialmente una crasi delle due realtà, mentre il simbolo è una "bicicletta" che affianca le miniature dei due emblemi (dominati rispettivamente dal fumetto col profilo della regione e dal garofano). I due cerchi sono nella banda centrale bianca, mentre il segmento rosso superiore contiene il nome della lista e quello blu inferiore riporta il motto "In difesa dei diritti di tutti". Sul piano grafico si poteva fare senz'altro di meglio, ma è meritorio il ritorno del garofano sulle schede. 5) ALLEANZA VERDI E SINISTRA - RETI CIVICHE - ALTERNATIVA PROGRESSISTA Risulta ancora più pieno (e sicuramente più "ammassato") del contrassegno appena descritto quello della lista Alleanza Verdi e Sinistra - Reti civiche - Alternativa progressista. Nel simbolo coniato in occasione delle elezioni politiche, che accostava Europa Verde e Sinistra italiana, è stata inserita anche la dicitura "Alternativa progressista", ma soprattutto lo spazio per Ev e Si è stato ridotto per la necessità di inserire - ma sarebbe meglio dire incastrare - in basso anche il Movimento Equità territoriale fondato e promosso da Pino Aprile. 6) PARTITO DEMOCRATICO La coalizione che appoggia Gravina a queste elezioni comprende anche il Partito democratico, che ha dunque scelto di convergere sulla candidatura del sindaco M5S di Campobasso, in un quadro di sostanziale unità di buona parte delle forze di opposizione uscenti. In questo caso il Pd ha scelto di schierare sulle schede elettorali il suo simbolo ufficiale, senza aggiungere alcun riferimento territoriale né il nome della persona sostenuta come aspirante presidente; la stessa scelta, del resto, era stata compiuta nelle precedenti elezioni regionali molisane cui i dem hanno partecipato, dunque si ravvisa una continuità. 7) PROGRESSO MOLISE - GRAVINA PRESIDENTE L'unica lista della compagine elettorale di Gravina che contiene il nome del candidato è quella "civico-personale", una presenza assai frequente negli ultimi anni. La formazione si chiama Progresso Molise - Gravina presidente e presenta un simbolo, se possibile, ancora più pieno dei due visti sopra. L'elemento più visibile, al centro, è proprio il richiamo al candidato alla presidenza della giunta regionale, stretto tra l'altra parte del nome della lista (in basso, in bianco su segmento verde acqua) e, in alto, cinque sagome a mezzo busto di persone - come a voler legare il progresso alla componente umana - leggermente sovrapposte tra loro e con attenzione alla miscela dei colori (varianti dal verde all'azzurro-blu). Partecipano alla lista anche candidature indicate da Volt. FRANCESCO ROBERTI Terzo e ultimo candidato alla presidenza della regione Molise è Francesco Roberti, sindaco di Termoli e scelto dal centrodestra per cercare di mantenere la guida dell'amministrazione regionale dopo la giunta Toma. Pure in questo caso è stato presentato il contrassegno della candidatura, in cui il blu è il solo colore che si alterni al bianco: tinge il riferimento al candidato nella parte superiore e il segmento in cui trova posto l'espressione "per il Molise". Il cognome di Roberti, decisamente visibile, induce a riflettere sulla strategia dei due principali candidati: di norma, infatti, nelle regioni in cui i contrassegni dei candidati sono ancora previsti (e per tutti gli anni in cui questi sono stati impiegati in tutte le regioni ordinarie) si preferiva schierare emblemi anonimi, per non rischiare che chi votava mettesse la croce solo su quei simbolo e non anche su un contrassegno di lista, perdendo voti preziosi; qui, invece, centrodestra e centrosinistra allargato hanno scelto di correre questo rischio. 8) LEGA Sono 7 le formazioni che fanno parte della compagine elettorale a sostegno di Roberti. L'estrazione ha indicato per prima la Lega, già presente alle precedenti elezioni regionali, ma allora con il riferimento al Molise sotto al cognome di Matteo Salvini. Questa volta invece è stato impiegato proprio il contrassegno coniato per le elezioni politiche del 2018, dunque con la dicitura completa "Salvini premier" sotto la statua di alberto da Giussano a spada sguainata. Sarà interessante vedere il risultato della Lega, che nel 2018 (al suo esordio elettorale molisano) aveva ottenuto l'8,23%, allora senza riuscire a superare Forza Italia. 9) UNIONE DI CENTRO - DEMOCRAZIA CRISTIANA - NOI DI CENTRO Della seconda lista della coalizione di centrodestra si era già in qualche modo parlato nei giorni scorsi, nel dare conto dell'esclusione della Dc-Cirillo e della presenza di un altro simbolo che univa lo scudo crociato e la dicitura "Democrazia cristiana". Si è anticipato, quindi, che l'Unione di centro e noi Di Centro (partito di Clemente Mastella, citato solo come sigla, come a voler indicare una "nuova Dc") formano una lista comune con anche l'apporto di Gianfranco Rotondi (Verde è Popolare), che ha concesso l'uso della denominazione "Democrazia cristiana" riconosciutogli nel 2004. Lo scudo è più grande del consueto e occupa tutto lo spazio possibile tra i due nomi maggiori disposti ad arco, rendendo ancor meno visibile le antiche vele di Ccd e De. Concorre alla lista anche Italia viva con il coordinatore regionale Donato D'Ambrosio (ma c'è pure Molise al centro). 10) FRATELLI D'ITALIA Non poteva mancare nella coalizione di centrodestra che sostiene Roberti l'apporto di Fratelli d'Italia: superare il 4,45% di cinque anni fa, visti i consensi di cui gode il partito a livello nazionale, sembra decisamente alla portata. Sul piano grafico nessuna novità per Fdi, che impiega esattamente lo stesso contrassegno del 2018, già schierato alle elezioni politiche di quell'anno. Tra le persone candidate, oltre ad Angelo Michele Iorio (già presidente della regione), c'è Aida Romagnuolo, che nel 2001 fece presentare al Viminale il simbolo Vola Molise, con una farfalla bianca su fondo blu che ricordava quella della Rai. 11) FORZA ITALIA Nel 2018 Forza Italia era stata la lista più votata della coalizione di centrodestra, con il 9,38%; si vedrà se questa volta saprà mantenere il primato. Si tratta ovviamente delle prime elezioni senza Silvio Berlusconi, con il nome che è rimasto sul simbolo (anche perché i documenti per le candidature sono stati presentati prima della sua morte, quindi non ci si poneva proprio il problema); il contrassegno impiegato ha come base quello delle ultime elezioni politiche (dunque con il riferimento al Partito popolare europeo), con l'inserimento della dicitura "per il Molise" al posto dell'appellativo "presidente" sotto il cognome di Berlusconi. 12) POPOLARI PER L'ITALIA Non può non destare curiosità la ricomparsa sulla scheda elettorale del simbolo dei Popolari per l'Italia, partito fondato dall'ex ministro Mario Mauro e da tempo ben poco visibile a livello nazionale. Basta però guardare ai risultati elettorali di cinque anni fa per non stupirsi: la lista aveva ottenuto il 7,12%, battendo Udc e Fdi e riuscendo a eleggere due consiglieri (uno, Vincenzo Niro, è vicepresidente del partito). Il simbolo è quello già noto - per chi ne ha memoria, ma per chi appartiene ai #drogatidipolitica non ci sono dubbi in materia - con il tricolore spalmato su tre frecce, su uno sfondo azzurro blu a cerchi tangenti. 13) IL MOLISE CHE VOGLIAMO Si ha l'impressione di trovarsi di fronte a una lista civico-politica, con colori affini alle sensibilità moderate e di centrodestra (per l'uso dei quattro colori nazionali) guardando il contrassegno di Il Molise che vogliamo, formazione promossa dall'europarlamentare Aldo Patriciello. In effetti, se il nome è piuttosto generico e potrebbe adattarsi a ogni parte politica, il segmento azzurro superiore - quasi a voler simboleggiare il cielo - e l'arcobalenino tricolore in basso (non proprio regolare, ma comunque mosso) ricordano decisamente il vecchio simbolo del Popolo della libertà; tra i candidati, c'è il vicepresidente del consiglio regionale Gianluca Cefaratti. 14) IL MOLISE IN BUONE MANI - NOI MODERATI Ultima lista della coalizione di centrodestra e dell'intero panorama elettorale molisano del 2023 è Il Molise in buone mani - Noi moderati. Sembra di poter parlare di "lista del candidato presidente", visto che è la sola a inserire - anche qui in grande evidenza - il nome dell'aspirante guida della giunta regionale; c'è però anche la partecipazione di Noi moderati, evoluzione del progetto centrista delle ultime elezioni politiche. Di fatto, tra l'altro, sembra che la grafica del contrassegno sia quella di Noi moderati ribaltata, visto che il gruppo legato a Maurizio Lupi occupa la parte inferiore del cerchio (tinta di un blu diverso rispetto a quello del simbolo da poco varato), giusto sotto a una "onda" tricolore. Pubblicato da Gabriele Maestri alle 10:54 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: emilio izzo, francesco roberti, Gabriele Maestri, I simboli della discordia, molise, per un pugno di simboli, regionali 2023, roberto gravina, simboli, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo SABATO 17 GIUGNO 2023 IO NON VOTO (I SOLITI... NOTI): IZZO SFIDA IL MOLISE CON UN MAIALE NEL SIMBOLO L'ultimo appuntamento con le elezioni regionali nel 2023 si celebrerà, come detto, il 25 e il 26 giugno in Molise. Se finora si è parlato di una lista che non parteciperà al voto (quella della Democrazia cristiana), prima della panoramica su tutte le formazioni che finiranno sulla scheda elettorale non è possibile non dedicare un po' di attenzione a una lista che ha destato non poca attenzione già prima di essere ufficialmente presentata e ammessa alla competizione. Ci si riferisce a Io non voto (i soliti... noti): una lista con titolo e sottotitolo, si potrebbe dire, che schiera come candidato presidente per la giunta regionale Emilio Izzo, classe 1954, a lungo impegnato con vari ruoli - e anche a livello sindacale - presso diversi istituti del Ministero dei beni e delle attività culturali (ora della cultura) in Molise. Sarà lui a sfidare i candidati del centrodestra (Francesco Roberti) e dello schieramento che unisce centrosinistra e M5S (Roberto Gravina). Tra le ragioni per cui la lista - che si è autodenominata "Movimento politico di salvezza pubblica" (i media spesso hanno usato la dicitura "Comitato di salute pubblica") - ha fatto subito parlare di sé, oltre al nome scelto, c'è inevitabilmente il simbolo presentato e finito sulle schede. Su fondo rosso, infatti, oltre al nome - scritto in un inconfondibile carattere Bodoni Poster bianco - campeggia l'inconfondibile sagoma di un maiale: salvo errore, si tratta della prima volta che lo si trova in un contrassegno elettorale. Il motivo di questa scelta lo spiega direttamente Izzo, raggiunto da questo sito tra una tribuna televisiva e l'altra: "Il maiale, come molte persone sanno, mangia di tutto e ingrassa perché quello che gli si mette davanti mangia; non tutti sanno, però, che è in grado di mangiare anche carne umana. Da questo punto di vista, la similitudine con la classe politica, molisana e non, risulta abbastanza chiaro: negli ultimi 15 anni i politici hanno fatto diventare la regione l'ultima ruota del carro. Siamo la devastazione completa in tutti settori, a partire dalla sanità. I soliti noti di cui parliamo nel nome sono quelli che hanno fatto la devastazione e per questo li accostiamo al maiale, il maiale ha mangiato tutto il mangiabile, incluso l'uomo, perché abbiamo perso tutto. Ora, visto che del maiale non si butta nulla, noi ci candidiamo perché vogliamo mangiarlo noi prima che ci mangi lui". L'idea di schierare un maiale come emblema elettorale è nata nelle ultime settimane, quando è maturato il progetto di partecipare a queste elezioni regionali, ma il concetto di fondo per Izzo è nato ben prima: "Io da una vita lotto per difendere gli ultimi, i poveri, l’ambiente. Ogni volta che andavo per le mie proteste insieme ad altre persone sotto i palazzi che contano, incluso quello della Regione, puntualmente chi stava dentro non usciva mai a parlare con noi: prendevano tanti soldi e se ne fregavano della povertà. L'idea che fosse il momento di smettere di votare per 'i soliti noti', dunque, sta da molto tempo nella mia testa, anche se poi attuarla non è una cosa semplice: senza dubbio non era facile schierarsi contro i blocchi di potere, quello del centrodestra che ha guidato la regione negli ultimi cinque anni e quello che unisce centrosinistra e MoVimento 5 Stelle". Tra le difficoltà superate in queste ultime settimane, Izzo mette anche la raccolta delle sottoscrizioni necessarie a partecipare: "Questi signori, nel 2017, hanno scritto una norma per cui i partiti che stanno in Parlamento, che sono rappresentati in consiglio regionale o che sono registrati a livello nazionale non devono nemmeno fare la fatica di raccogliere le firme, a differenza di chi è nuovo. Questo fa rabbia, ma noi ci siamo messi d'impegno e in pochi giorni ci siamo riusciti, andando ben oltre il minimo di 300 sottoscrittori: posso dire quindi che per noi la raccolta firme è stata un successo e la gente ci ha già voluto sostenere". Certo può sembrare curioso che oltre 300 persone abbiano firmato per una lista che mette in evidenza l'espressione "Io non voto". Un'espressione che tra l'altro non è nuova: chi appartiene alla schiera dei #drogatidipolitica sa che dal 2006 al 2014 è stato depositato presso il Viminale il contrassegno della lista civica nazionale "Io non voto", progetto concepito da Carlo Gustavo Giuliana, palermitano trapiantato a Belluno, per anni impegnato a fotografare la protesta di chi non si reca alle urne con il proprio simbolo. Vero è che lo si è visto di rado sulle schede elettorali; forse anche per questo, Emilio Izzo non conosceva quel precedente uso del nome. "Mi faccia però precisare una cosa: io - chiarisce - non ho mai pensato di non votare o di assecondare la deriva dell'astensionismo. Il fatto è che in Italia non c’è una regola che stabilisce che se alle elezioni vota meno del 50% il risultato elettorale non è valido: in questo modo finisce che meno persone vanno a votare e più di fatto ai 'soliti noti' conviene, perché si votano da soli e con il sostegno dei pochi che stanno con loro. Ecco perché non mi limito a dire 'io non voto', restando sul terreno della protesta, ma preciso che 'io non voto i soliti... noti', formulando una proposta e dando un'alternativa concreta a chi condivide quest'idea. Di più, non faccio questo con un percorso simile a quello dei 5 Stelle, che all'inizio non erano conosciuti da nessuno: io lo faccio a quasi 70 anni, come punto di arrivo di un percorso che le persone conoscono e che è volto ad abbattere un sistema". Per Izzo, tra l'altro, questa non è la prima esperienza elettorale: nel 1995 era stato eletto consigliere provinciale di Isernia, si è tra l'altro candidato due volte alle comunali di Isernia con la lista Isernia domani (2007 e 2016) e nel 2013 alle regionali era tra i candidati di Rivoluzione democratica (declinazione locale di Rivoluzione civile). "Ho scelto di riprovarci, lanciandomi in una avventura difficilissima e disperata, anche per lo sbarramento che taglia fuori dal consiglio le liste legate ai candidati alla presidenza che non hanno raggiunto l'8%, ennesimo segno di questa classe politica che non vuole innovarsi. Io in ogni caso concorro e do la possibilità alle elettrici e agli elettori di votare per persone diverse dai 'soliti noti'. Lo faccio con colori che mi piacciono molto: il nero simboleggia il buio e l'oscurità della notte da cui dobbiamo uscire; il rosso indica il risveglio, la passione e la lotta, non per forza di sinistra. Ho cercato di dare al simbolo un'immagine immediata ma non per questo sgradevole: se avessimo usato un'immagine verosimile di un maiale, per esempio, avremmo creato qualcosa di cattivo gusto e avremmo fatto prevalere la dimensione della rabbia su quella della proposta". Benché la legge richieda l'8%, quale risultato lascerebbe comunque soddisfatto Izzo? "Già raggiungere il 5% mi sembrerebbe significativo, ma ricevo segnali confortanti: in questi giorni mi hanno chiamato anche dall'Abruzzo, dalla Puglia, dal Lazio e dalla Campania, mostrando interesse per questo progetto e l'intenzione di esportarlo se l'esito fosse interessante". Toccherà aspettare qualche giorno per sapere se il maialino contro i "soliti noti" dovrà varcare i confini del Molise. Pubblicato da Gabriele Maestri alle 11:06 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: emilio izzo, Gabriele Maestri, I simboli della discordia, io non voto, maiale, maialino, molise, per un pugno di simboli, regionali 2023, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo, soliti noti MARTEDÌ 6 GIUGNO 2023 MOLISE, COSA CI INSEGNA L'ESCLUSIONE DI ELISABETTA TRENTA E DELLA DC Nei giorni 25 e 26 giugno 2023 sono previste le elezioni regionali in Molise, le ultime previste quest'anno. Ci sarà tempo per analizzare i simboli destinati a finire sulla scheda elettorale; nel frattempo è il caso di occuparsi, almeno per un attimo, di una lista che risulta esclusa da questa competizione. Ci si riferisce alla Democrazia cristiana, che aveva scelto di sostenere l'ex ministra della difesa Elisabetta Trenta come candidata alla presidenza della giunta regionale: si tratta - giusto per non fare confusione circa i vari soggetti politici che operano in campo con lo stesso nome - della Dc che riconosce come proprio segretario Antonio Cirillo e che ha come portavoce e coordinatore politico nazionale l'ex consigliere regionale Fabio Desideri. Ieri il Tribunale amministrativo regionale del Molise ha respinto il ricorso con cui si era chiesta la riammissione della lista; potenzialmente è ancora possibile che il Consiglio di Stato - qualora sia impugnata questa sentenza nelle prossime ore - riammetta la formazione, riportando a 15 il numero delle liste in campo (era stata presentata ed esclusa - per numero insufficiente di candidati - anche quella di Forza Nuova: non risultano ricorsi), ma è assai probabile che il quadro non muti ulteriormente. Occorre precisare subito che, come correttamente riportato dai media, l'esclusione della lista della Dc non è stata legata all'uso dello scudo crociato. E questo nonostante tra le liste ammesse a partecipare alle prossime elezioni regionali ci sia anche quella guidata dall'Unione di centro (Udc): questa, oltre a schierare lo scudo in primo piano (e ingrandito rispetto al solito), contiene nel contrassegno anche i riferimenti a Noi Di Centro (la formazione guidata da Clemente Mastella) e soprattutto alla Democrazia cristiana, denominazione apportata da Gianfranco Rotondi, secondo quanto gli era stato concesso nel 2004 dai legali rappresentanti del Ppi - ex Dc. Il problema dell'eventuale confondibilità - peraltro acuito dalla compresenza di denominazione e scudo in due emblemi diversi: non è stato diffuso il simbolo esatto della Dc-Cirillo, ma la descrizione del contrassegno fa pensare che sia stato lo stesso ricusato dal Viminale prima delle ultime elezioni politiche - non si è proprio posto, visto che gli uffici elettorali hanno escluso la lista per invalidità formali che non hanno nemmeno portato i collegi a esaminare l'ammissibilità delle candidature e del rispettivo contrassegno. Fin dall'inizio i media hanno parlato del ritardo con cui i documenti legati alla presentazione della lista e della candidatura di Trenta sarebbero stati consegnati: si era parlato di pochi minuti rispetto al termine delle ore 12 fissato per il 27 maggio scorso, ma il verbale di deposito in effetti indicava le ore 15 e 16. Dal ricorso si apprende che Sabatino Esposito, delegato della lista Democrazia cristiana (nonché indicato dal sito del partito quale segretario amministrativo e, da statuto, legale rappresentante), si era recato presso il tribunale di Campobasso, dove aveva sede l'Ufficio unico circoscrizionale, insieme ad Antonio Cirillo (segretario del partito) e Antonio Cardone (uno dei candidati). Esposito sarebbe arrivato alle ore 11 e 55, "attendendo pazientemente, all'interno della sede della Commissione elettorale e precisamente (aula di udienza adibita ad anticamera) che il predetto Ufficio terminasse le operazioni inerenti le altre liste di candidati". I tre soggetti sarebbero "[e]ntrati (in orario) all’interno del locale adibito alla presentazione delle liste, e nelle more dell’attesa del loro turno, venivano avvisati da un addetto presso il Tribunale che era necessario andare a prendere un 'numero elimina code' ovvero un 'tagliando' [...] presso un locale dislocato differente da quello presso cui si consegnava la documentazione": la scelta di richiedere il ritiro del tagliando per accedere alla sala del deposito sarebbe stata adottata, secondo l'ufficio elettorale, "ai fini della necessaria numerazione provvisoria dell’ordine delle liste, specie quelle non infrequentemente presentate proprio a ridosso del temine finale". Si sarebbe temporaneamente allontanato dal locale per la consegna delle liste - allontanamento ritenuto "meramente funzionale ad adeguarsi alle regole autostabilite dall'Ufficio Unico Circoscrizionale", cioè al procurarsi il tagliando - proprio il delegato di lista (Esposito), mentre sarebbero rimasti lì gli altri due membri della delegazione, con tanto di documenti da consegnare. Nel frattempo, però, si era fatto mezzogiorno: le porte del luogo di consegna delle liste sono state chiuse (con le due persone della Dc, non delegate, all'interno) e a Esposito, giunto nel luogo di consegna dei tagliandi inevitabilmente dopo le 12, non è stato consegnato il famoso tagliando: "solo all'esito di alcune rimostranze gli veniva consentito l'ingresso" nella stanza di presentazione delle liste per raggiungere le due persone rimaste lì dentro. La consegna, dopo un'anticamera di oltre tre ore, sarebbe poi effettivamente avvenuta alle 15 e 16, come riportato sul verbale: il delegato di lista non avrebbe contestato quell'orario (senza impugnare il verbale per querela di falso, ma - a quanto pare - senza nemmeno far annotare proprie osservazioni alla cancelliera redigente) sia perché effettivamente si riferiva al momento della consegna, sia perché l'ampio ritardo era dovuto alle precedenti operazioni di deposito che si erano protratte. Oltre al problema dell'orario, però, sarebbero emerse altre criticità: in particolare, alla dichiarazione di collegamento della lista della Dc di Esposito alla candidatura di Elisabetta Trenta non corrispondeva "analoga e convergente dichiarazione" resa da Trenta; in più, risultava presentata l'accettazione della candidatura da parte di Elisabetta Trenta, ma non la dichiarazione di presentazione della candidatura stessa, con le relative firme richieste. Tali mancanze, per gli uffici elettorali, sarebbero state così gravi da far cadere candidatura e lista. Per i presentatori della lista, invece, quei documenti c'erano e sarebbero stati consegnati alla cancelliera in sede di deposito, con relativa verbalizzazione della consegna: anzi, proprio la procedura di consegna (a seguito delle singole richieste della cancelliera ricevente) e il verbale, secondo Esposito, avrebbero generato in lui "la certezza nell’affidamento circa il suo buon operato, avendo egli consegnato tutto quanto richiesto dall’addetta dell’Ufficio". Come dire: se sono stati consegnati i documenti espressamente richiesti e, si suppone, la persona che ha redatto il verbale ha controllato che fossero effettivamente quelli prescritti, la consegna era regolare e completa, per cui eventuali mancanze non si potevano addebitare ai presentatori. Quanto alla presentazione della candidatura a presidente, secondo gli esponenti della Dc questa poteva essere fatta con lo stesso modulo di presentazione della lista, dunque anche con le medesime firme a sostegno (visto che la lista sosteneva esplicitamente Trenta). Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è stato considerato valido dal Tar Molise. Sulla questione più dibattuta, vale a dire quella dell'orario di consegna, per i giudici è "astrattamente condivisibile l’affermazione del ricorso che 'ciò che rileva, ai fini della tempestività del deposito del materiale, non è l’orario di consegna dello stesso, ma l’orario di arrivo dei delegati presso l’ufficio stesso muniti della necessaria documentazione' (in quanto le lungaggini delle operazioni di consegna delle liste giunte sul posto prima di quella ricorrente non potrebbero essere addebitate al delegato di quest’ultima)", ma per loro "proprio la tempestività dell’arrivo del sig. Esposito presso l’Ufficio è rimasta sfornita di qualsivoglia serio conforto probatorio". Quando sono state chiuse le porte della stanza del deposito delle liste, lì c'erano due persone la cui presenza per il Tar era "irrilevante" (pur essendo candidate o figure apicali della Dc), mentre il delegato di lista era altrove e per il collegio rileva soprattutto la "circostanza - con ogni probabilità non casuale - che l’interessato non ha mai potuto conseguire [il] “tagliando” dal personale della cancelleria", dunque non ci sarebbero prove della presenza del depositante effettivo nei locali dell'ufficio elettorale prima della scadenza dei termini (e, in più, non ci sarebbe stato nemmeno un ritardo "lieve", non rilevando a quanto pare l'argomento dell'anticamera dovuta alle molte liste depositate prima). Sulla questione della mancanza di un espresso atto di presentazione della candidatura di Elisabetta Trenta, con sottoscrizioni espressamente rivolte a questo, il Tar appare piuttosto netto. Per i giudici amministrativi, le norme in vigore (l'art. 6 della legge regionale n. 20/2017, cioè la legge elettorale) parlano espressamente della presentazione della candidatura a presidente della giunta regionale (e di dichiarazione di collegamento con una o più liste), sottoscritta da almeno 300 elettori del Molise: quelle firme, per il collegio, sono "un elemento strutturale prescritto a pena di invalidità" della candidatura. Interessa soprattutto la contestazione della tesi dei presentatori, secondo i quali la legge non richiede che la candidatura alla presidenza e le relative firme a sostegno risultino da "moduli differenti da quelli previsti per la presentazione della lista dei candidati consiglieri". Non solo le istruzioni per la presentazione delle candidature fornivano in allegato due moduli diversi per presentare una lista o una candidatura alla presidenza, ma le sottoscrizioni hanno "un oggetto differenziato" e diversi "presupposti e contenuti" per le due fattispecie (e, del resto, i presentatori della lista non hanno contestato che la mancanza della presentazione della candidatura potesse far venir meno anche la lista e che in effetti un atto espressamente configurabile come presentazione della candidatura mancasse). Queste osservazioni hanno reso inutile la valutazione dell'altra mancanza rilevata dagli uffici elettorali, quella della dichiarazione di collegamento di Trenta con la lista della Dc. Come si diceva, è ancora possibile che la Dc ricorra al Consiglio di Stato, mentre non risulta che abbia fatto ricorso al giudice amministrativo Elisabetta Trenta (non si sa se abbia provato almeno a impugnare gli atti davanti all'ufficio elettorale regionale). In ogni caso, da quanto deciso dai giudici di prime cure su questo caso si possono trarre alcuni insegnamenti pratici per il futuro. Primo insegnamento: occorre prestare la massima attenzione alle previsioni della singola legge elettorale regionale. Dal ricorso e dalla sentenza questo non emerge, ma si può supporre che la mancata raccolta firme a sostegno della candidatura di Trenta alla presidenza (oltre che della lista della Dc) sia dipesa anche dal fatto che la legge elettorale molisana prevede espressamente la raccolta firme anche per la presentazione delle candidature alla presidenza, mentre altre leggi elettorali regionali la escludono (a partire da quelle di Lombardia e Lazio) o comunque non la prevedono (Friuli - Venezia Giulia); la previsione esplicita della richiesta di sottoscrizione anche della candidatura alla presidenza (che vale pure qualora l'unica lista a sostegno sia esonerata dalla raccolta firme, come pure qualora vi siano più liste, esonerate o no) è rafforzata dalla previsione del divieto per il membro del corpo elettorale di firmare per più liste, mentre chi firma per una lista può firmare anche per un candidato alla presidenza. Quanto è accaduto in quest'occasione, oltre a costituire un secondo episodio sfortunato nel rapporto tra Elisabetta Trenta e chi dovrebbe preoccuparsi della regolarità della sua candidatura (si ricordi la mancata presentazione alle suppletive di Roma-Primavalle nel 2021, quando non tutte le firme raccolte sarebbero state di elettori residenti nel collegio interessato dal voto), suggerisce davvero di porre tutta l'attenzione possibile alle norme elettorali in vigore, senza cadere nella tentazione di scegliere le interpretazioni più "leggere" o meno impegnative. Il Tar, peraltro, ha ritenuto di poter compensare le spese tra le parti, a dispetto della complessiva infondatezza del ricorso: ciò fa pensare che qualche "attenuante" sulla questione della (mancata) presentazione della candidatura presidenziale di Trenta sia stata riconosciuta, magari proprio per il fatto che le firme sono richieste in Molise e non altrove (una situazione che, oggettivamente, non appare troppo ragionevole e forse meriterebbe di essere rivista, in nome di una soluzione comune). Se si legge solo la motivazione sul primo motivo di ricorso, quello relativo al ritardo nella consegna della lista e nella mancata prova della presenza del delegato nel luogo di consegna della lista prima della scadenza dei termini, è facile riscontrare ben altro tono, più compatibile con una decisione di soccombenza che con una compensazione delle spese. Tra l'altro, la mancanza di un esplicito atto di presentazione della candidatura alla presidenza debitamente sottoscritto avrebbe fatto venir meno comunque la lista della Dc, quindi per economia processuale i giudici avrebbero potuto trattare anche solo quel punto, ottenendo lo stesso risultato: il collegio, invece, ha voluto trattare anche la questione del ritardo. Sulla base di quanto accaduto a Campobasso, quindi, chiunque in futuro voglia presentare candidature farà bene a preoccuparsi - tra l'altro - di due cose: 1) di preparare e controllare per tempo tutti i documenti, presentandosi in comune o negli uffici giudiziari con un opportuno anticipo, senza voler emulare a tutti i costi la Dc di un tempo che si metteva in fila per ultima mirando all'ultimo posto sulla scheda (quando l'ordine di presentazione determinava anche l'ordine di stampa, prima dell'avvento del sorteggio); 2) di indicare due delegati alla presentazione della lista, in modo che uno vada a prendere l'eventuale numero/tagliando necessario o comunque "tenga il posto" in fila, mentre l'altro presidia la documentazione, eventualmente insieme ad altre persone a supporto. Si tratta, sotto questo profilo come a proposito delle firme, di prendere su serio le norme che regolano le elezioni, vale a dire uno dei riti fondamentali della democrazia. Certamente occorre tutelare il favor participationis senza scoraggiare la partecipazione di chi intende ricevere i voti, così come eccedere in "rigorosissime formule sacramentali" (come le definisce il ricorso della Dc) non è salutare; allo stesso tempo, però, le regole finché ci sono vanno rispettate e occorre fare il possibile per compiere tutti gli atti richiesti. Si possono leggere le disposizioni in modo da dimezzare gli sforzi richiesti (raccogliendo firme solo per la lista, pensando che valgano certamente anche per la candidatura a presidente), così come ci si può attardare fino agli ultimi minuti del tempo concesso per il deposito dei documenti (anche solo perché magari non si è riusciti a sistemare tutto prima), ma in quel modo si accetta il rischio che qualcosa vada storto, anche in modo irreparabile. Una cosa è certa: stavolta nessuno potrà imputare a una delle varie Dc la mancata partecipazione al voto a causa dello scudo crociato; se però tutte le carte - della lista e della candidatura a presidente - fossero state in regola, il problema quasi certamente sarebbe sorto e il simbolo sarebbe finito una volta di più davanti ai giudici. Pubblicato da Gabriele Maestri alle 15:32 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest Etichette: antonio cirillo, Democrazia cristiana, elisabetta trenta, Gabriele Maestri, I simboli della discordia, molise, per un pugno di simboli, regionali 2023, simboli, simboli dei partiti, simboli politici, simbolo Post più vecchi Home page Iscriviti a: Post (Atom) LE "ELEZIONI PADANE" DEL 1997 LA POLITICA IN TECHNICOLOR LA MOSTRA IN PIEMONTE, "SOTTO I MILLE" M'imbuco a Sambuco!, scritto con M. 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