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Home » CRONACA » Boss della “Scu” a 34 anni: sulle orme di nonno Carlo



BOSS DELLA “SCU” A 34 ANNI: SULLE ORME DI NONNO CARLO

 * Di Gianmarco Di Napoli
 * 20 Luglio 2023
 * CRONACA

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di Gianmarco Di Napoli per il7 Magazine

Carlo Cantanna, tra i capi storici della Sacra corona unita, è stato sempre
quello più defilato. Negli anni Novanta, quando gran parte dei boss entravano e
uscivano di galera, “Caccavella” gestiva i suoi affari rintanato nella masseria
Canali, tra Mesagne e San Vito dei Normanni, in una specie di terra di nessuno
che gli ha consentito, per lungo tempo, di non essere pienamente geolocalizzato:
un “sanvitomesagnese” sfuggente e dal volto quasi sconosciuto alle foto
segnaletiche pubblicate dai giornali del quale all’improvviso si comprese il
vero spessore quando nel marzo 1994 il Tribunale delle misure di Prevenzione di
Brindisi sottopose a sequestro preventivo la masseria. Due anni dopo quel
provvedimento divenne definitivo con la confisca dell’intero patrimonio
immobiliare di 20 ettari (due fondi rustici e un fabbricato rurale) che
all’epoca venne valutato in 430 milioni di lire. Nove anni dopo la masseria fu
assegnata al Comune di Mesagne e da questo alla cooperativa Terre di Puglia –
Libera Terra che l’ha trasformata in un luogo didattico e in un’azienda
agricola, simbolo nazionale della lotta alla mafia.




Il secondo grande problema, Cantanna se l’è creato da solo poco tempo dopo, nel
2001. Era appena uscito dal carcere dopo dieci anni Tommaso Marseglia, detto
Masino Gioia, un tempo custode del cimitero di San Vito ma soprattuto capo
riconosciuto del racket delle estorsioni che all’inizio degli anni Novanta aveva
trasformato San Vito in una polveriera in cui i commercianti subivano attentati
e minacce, tanto da far nascere l’Acias, Associazione Commercianti Imprenditori
Antiracket di San Vito dei Normanni, la seconda in Italia dopo quella creata da
Tano Grasso a Palermo. Cantanna si considerava il boss di San Vito ma Marseglia
voleva riprendersi il controllo del paese e in un bar gli diede uno schiaffo.
Qualche giorno dopo Cantanna, insieme a un complice mai individuato ma che i
pentiti sostennero fosse un suo parente, ammazzò Masina Gioia mentre in scooter
andava da San Vito a Specchiolla. Per quell’omicidio “Caccavella” è stato
condannato all’ergastolo definitivo, in regime di 41 bis, nel carcere di Milano
Opera. Ha 72 anni, è assai probabile che non esca mai più.



Gianluca Lamendola ha sei anni quando i carabinieri arrivano nella masseria
Canali per sequestrarla, già allora era il nipote prediletto di Carlo, nonno
materno. Non impiega molto a dimostrare di esserne anche l’erede predestinato: a
20 anni, nel 2009, viene arrestato dopo aver gambizzato a colpi di pistola un
giovane di San Vito con il quale aveva avuto una discussione in un bar davanti
ai videopoker. Tre anni dopo viene nuovamente ammanettato, questa volta per
tentato omicidio, dopo un agguato compiuto in campagna contro un agricoltore:
tre colpi di fucile a canne mozze per vendicare una lite avuta con lui in
carcere dove era finito insieme allo zio Rosario (fratello di Carlo) per spaccio
di droga.

Proprio nella sala colloqui del carcere di Milano avviene una sorta di passaggio
di consegne. Tra il novembre 2020 e il giugno 2021, in piena pandemia, per ben
40 volte Ivana, la figlia di Carlo Cantanna, parte da San Vito per incontrare il
padre. Lei è autorizzata, ma Gianluca si aggrega pur non avendone diritto. Il
boss è vecchio, provato dalla lunga detenzione e dal fatto di non avere quasi
speranza di riassaporare la libertà. Il nipote parla tanto con il nonno e si
interessa delle sue condizioni, arrivando a minacciare il suo avvocato: “Fai
tutto quello che sta da fare, sennò ti uccido”. Secondo la Dda di Lecce in
questi passaggi non c’è solo il normale interesse di un nipote verso la sorte
del nonno detenuto, ma l’assunzione delle redini del clan, quasi pensionando il
vecchio boss. E, secondo quanto emerso dalle lunghe indagini condotte dai
carabinieri della compagnia di San Vito dei Normanni, che lunedì hanno portato
all’esecuzione di 22 ordinanze di custodia cautelare, di cui 21 in carcere, c’è
riuscito.




Il percorso di Lamendola verso il vertice dell’organizzazione è stato facilitato
dall’improvvisa debacle del clan fino ad allora più potente della provincia di
Brindisi, quello che faceva capo ad Andrea Romano e alla famiglia Coffa,
decapitato dalla condanna all’ergastolo per “Ramarro” e dalla sua successiva
decisione, insieme a moglie e cognati, di collaborare con la giustizia. L’ascesa
di Lamendola inizia proprio da San Vito dei Normanni, sulle orme del nonno che
aveva ucciso l’ultimo boss del paese e puntando a mettere fuori gioco – con
qualsiasi mezzo – chi a San Vito fino ad allora aveva controllato, lo spaccio
per conto di Romano, ossia Ciccio Turrisi.

Del resto aveva già messo bene le cose in chiaro quando era ancora in carcere,
Lamendola: poco prima di tornare in libertà (il 2 novembre 2020) aggredisce un
detenuto affiliato di Turrisi, lo massacra di botte e lo costringe a scrivere
una lettera al suo rivale macchiata di sangue. Il giorno dopo Turrisi gli fa
recapitare in carcere 500 euro per cercare la pace ma Lamendola rifiuta.
Picchiare un affiliato altrui in carcere, costringendolo a scrivere una lettera
al suo capo macchiata di sangue e poi rifiutare il dono in denaro fatto subito
dopo per ricucire lo strappo – scrivono gli inquirenti – sono espressioni della
caratura mafiosa di Lamendola che con la forza e con un’ostentata supremazia di
un codice comportamentale che non scendeva a patti con l’avversario, veniva
mostrata a tutti i sodali. Una vera e propria autoinvestitura.
Dal momento della sua scarcerazione Lamendola riprende in mano le attività
commerciali distinguendo tra quelle che che pagavano la tangente prima del suo
arresto, che avrebbero dovuto solo versare gli interessi sul non versato, e
quelle che invece non erano ancora sottoposte al “punto” e che avrebbero dovuto
pagare. Cinquecento/seicento euro al mese, a seconda dell’importanza del
negozio, per garantirsi il protettorato della Sacra corona, o meglio per evitare
la distruzione dell’attività.




Quasi da serie tv sulla mafia è l’incontro con un vecchio pregiudicato che lo va
a trovare fermandosi a parlare con lui per ore e che resta – scrivono i
carabinieri – affascinato dal suo modo di fare. Lamendola gli spiega che il
mafioso secondo lui non può assumere droga e che lui i tossicodipendenti tra i
suoi affiliati non li vuole. Questo era stato già una specie di slogan per la
prima Sacra corona unita: Rogoli proibiva ai suoi di consumare la droga, ma non
riuscì nel suo intento e anzi alcuni dei suoi, come Cosimo Capodieci e Alceste
Semeraro, tossicomani cronici, furono tra i primi collaboratori di giustizia che
affossarono alle radici la Scu.
Nel suo colloquio con il vecchio boss è chiaro: “Quando ti metti con i piedi a
terra la mattina, che prendi e vai, andate a fare l’azione, allora è. Non quando
vi ubriacate, vi tirate, andate a fare le azioni, il giorno dopo poi siete dei
conigli”.

Per proseguire la tradizione familiare sulle orme e secondo gli schemi del
nonno, persa masseria Canali divenuta baluardo della lotta alla mafia, Lamendola
stabilisce il suo quartier generale a pochi chilometri da quel luogo, in
contrada Mascava, territorio comunale di Brindisi. E’ qui che avvengono gli
incontri, per mesi filmati e registrati dai carabinieri, è qui vengono
sotterrati i soldi i contanti e anche la droga, tanta droga. La sola persona di
cui si fida davvero è il padre Cosimo, detto “Bicicletta”, più volte comparso
negli anni in vicende giudiziarie ma mai assurto al ruolo di capo. Gianluca si
confida spesso con lui, raccontandogli i suoi piani. Il padre esegue.


Ha un suo marchio, il giovane boss, la firma sulla carne viva delle sue vittime
che vuole intimidire e alle quali vuole lasciare un segno permanente:
l’incisione con un coltello sulla spalla destra di una stella, tangibile e
visibile che egli era passato di là, un po’ come il mandriano con il gregge per
sancire la proprietà sul soggetto passivo. Per prelevare le vittime che meritano
la sua punizione spedisce i suoi uomini, a volte con auto munite di lampeggianti
blu, fingendo di essere carabinieri in borghese. Vengono portati alla masseria,
picchiati, marchiati e rispediti a casa. «Giuro su questa punta di pugnale
bagnata di sangue…» è l’incipit del primo giuramento della Sacra corona unita.
Il giudice per le indagini preliminari che ha firmato le ordinanze di arresto ha
definito quella dei Cantanna-Lamendola, una “mafia di scuola”, il momento
d’arrivo di una storia mafiosa all’antica dove le regole avevano sempre un senso
ed erano l’asse portante di un sistema che non ammetteva sbagli. Il rispetto
delle donne, culminato nell’imposizione a un affiliato, reo di violenza
sessuale, prima di una detenzione domiciliare obbligata e poi del bando
dall’associazione, è emblematico della struttura voluta dal giovane boss, nella
quale vige il divieto assoluto di drogarsi, il rispetto totale verso il capo,
l’ubbidienza agli ordini di un manipolo di uomini.



La masseria di contrada Mascava come base centrale, insieme alla “piscina”,
ovvero un “B&B” nelle campagne di Fasano dove viene nascosta la droga, con i
terreni usati come nascondigli e una strettissima sorveglianza notturna. E
infine la consapevolezza di essere monitorati dalle forze dell’ordine che non li
fa arretrare di un passo, rispondendo con la bonifica dalle microspie dei mezzi.
Pestaggi, estorsioni, tentati omicidi, 44 capi d’imputazione che comprendono
tutti i reati del codice penale (escluso l’omicidio): questa è la Sacra Corona
3.0 alla quale i carabinieri della compagnia di San Vito dei Normanni hanno
inflitto un durissimo colpo. Gianluca e Cosimo Lamendola, figlio e padre, Carlo
Cantanna, nonno. Una famiglia di risalenza mafiosa.

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