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NON C'È NIENTE DI TWEE







DOMENICA 21 FEBBRAIO 2021


CONCLUDERE LA CRISI: COME CHIUDERE QUESTO CASINO



È la sera del 2 Febbraio 2021. Il Presidente della Camera, Roberto Fico, ha
appena rimesso, nelle mani di Sergio Mattarella, il mandato esplorativo
affidatogli. Esito: negativo. L'ipotesi di un terzo governo Conte muore
definitivamente, ed il Presidente della Repubblica è chiamato a prendere una
decisione, ed a farlo in fretta. Decide che non si può, non si deve, andare ad
elezioni, e prende la situazione in mano con un appello al paese ed alle forze
politiche. 







"[...] Avverto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche
presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto
profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica"

Sono parole pesate e ragionate, calibrate al millimetro e sulla cui
interpretazione e messa in pratica sono state impiegate le settimane successive.
Proviamo a fare un po' di analisi del testo.


C'è quella formula, "governo di alto profilo", che a voler essere maliziosi
farebbe storcere il naso. Vuol dire che di solito, in Italia, abbiamo governi di
basso profilo e che adesso è il momento di chiamare la gente che veramente sa il
fatto suo? 
No, non era questo che voleva dire Mattarella.


Sergio Mattarella è una persona che nella propria biografia mischia due elementi
antropologici fondamentali per comprendere i suoi discorsi: è un democristiano
ed è palermitano. Dall'appartenenza politica viene quel parlare convoluto,
attento, talvolta anche criptico e aperto all'interpretazione, come le profezie
di un oracolo, mentre dall'appartenenza geografica e culturale la tendenza a
parlare pochissimo, con sintesi e stile laconico, per fare in modo che siano gli
altri ad intendere, senza insultare l'intelligenza di chi ascolta parlando fin
troppo chiaro.


"Governo di alto profilo" significa dunque governo tecnico, ma non
necessariamente. Può significare anche governo politico a guida tecnica, larghe
intese politiche presiedute da una figura neutra. L'alto profilo non è, come si
potrebbe intendere, un attributo qualitativo associato a chi deve far parte del
governo, ma è una prospettiva: dall'alto si vede di più, si vede più lontano, e
si riesce ad abbracciare più idee e forze politiche e sociali.


C'è poi quell'altra formula:  "Che non debba identificarsi con alcuna formula
politica". Anche qui si sono spese molte interpretazioni. Quello che confonde è
quel non debba. Una splendida ambiguità semantica permessa dalla lingua
italiana, quell'espressione è contemporaneamente quello che in inglese sarebbe
"doesn't have to" (non debba necessariamente) e "shouldn't" (non dovrebbe). E le
forze politiche, con slancio esegetico, hanno fatto propria l'una o l'altra
interpretazione a seconda della convenienza. Alcuni esponenti della maggioranza
uscente si sono appellati alla prima interpretazione per cercare di non
disperdere le fila di un'alleanza, quella giallo-rossa, tanto faticosamente
perseguita. E dunque un governo che non debba per forza essere politico ma che
potrebbe esserlo e sul quale potrebbe sopravvivere e prosperare l'alleanza di
centrosinistra. Da Berlusconi e Salvini, invece, l'interpretazione opposta,
quella che poi si è rivelata essere vincente. Un governo che non deve
assolutamente essere politico, ed in nome di questa apoliticità è possibile
immaginare tutto, persino per Salvini di entrare al governo col PD, persino per
Berlusconi di mettere un sottosegretario accanto ad un ministro 5 Stelle. 


Terminata questa analisi del testo, che ci servirà come chiave per leggere gli
avvenimenti delle settimane successive, è finalmente arrivato il momento di
confrontarci con il convitato di pietra: Mario Draghi. 


Mario Draghi in un celebre momento di spavento durante una contestazione nel
mezzo di una conferenza stampa della BCE


Non ci soffermeremo a raccontare la storia di Mario Draghi, perché scommetto che
la sapete già tutti e tanta gente l'ha già raccontata prima e meglio di me. La
perdita dei genitori all'età di 15 anni, gli anni dell'università come allievo
prediletto dell'economista keynesiano Federico Caffè, poi l'insegnamento, il
lavoro nelle banche private e il ruolo di governatore della Banca d'Italia, fino
all'approdo ai vertici della BCE e la frase che l'ha catapultato nella storia:
"Whatever it takes".


Draghi è, senza girarci troppo attorno, l'italiano più prestigioso e rispettato
nel mondo. Il suo nome, nel corso degli anni, è stato ciclicamente invocato
quando si era in cerca di una figura che mettesse d'accordo un po' tutti: un
presidente del consiglio, un commissario europeo, un presidente della
Repubblica. Draghi piace alla destra e alla sinistra, e chiunque si schieri
anche solo tiepidamente nel fronte europeista non può che mostrare un sommesso
senso di riconoscenza nei suoi confronti. Per questo Mattarella lo ha scelto: in
una situazione dove le forze politiche hanno dimostrato la loro incapacità di
produrre una sintesi quello di Mario Draghi è l'unico nome che ha qualche
possibilità di mettere tutti d'accordo.


Personalmente, non ero entusiasta di sapere dell'incarico a Mario Draghi. Non
per pregiudizio o mancanza di stima verso l'ex presidente della BCE, sia chiaro,
ma perché il suo incarico segna la sconfitta di una politica che è stata
incapace di offrire una guida stabile in un momento critico del paese. E non
credo alla retorica per la quale i momenti di crisi invocano tecnici: al
contrario, i momenti critici sono quelli in cui le scelte politiche riecheggiano
con maggiore forza e le azioni intraprese possono avere gli effetti più forti e
duraturi. Il Presidente degli Stati Uniti che ha portato gli Alleati a vincere
la Seconda Guerra Mondiale era Franklin Delano Roosevelt, un Democratico
convinto, non un ammiraglio dell'esercito esperto di strategie di guerra. E
quando in Italia c'era da gestire la ricostruzione ed il piano Marshall, al
governo c'era Alcide De Gasperi, non Enrico Mattei. Io non credo che un governo
tecnico sia una necessità di per sé, credo che sia piuttosto un riconoscimento
dell'attuale inadeguatezza della politica. Coltivo comunque la speranza,
rassicurata dalla storia personale di Draghi, che farà bene il suo lavoro e
assicurerà un futuro dignitoso al nostro paese, ma conservo l'amara
consapevolezza del fatto che la politica non è riuscita ad offrire
rappresentanza nel momento in cui ce n'era più bisogno.


Come se questa delusione non bastasse, mentre stavo per andare a dormire, la
sera di Martedì 2 Febbraio spunta un post su Facebook di Vito Crimi, reggente
del Movimento 5 Stelle: "Non voteremo la fiducia al governo Draghi". Quella
notte non ho dormito.


Io nella mia cameretta alle 4 di mattina che non dormo perché ho letto che Vito
Crimi non vuole votare il governo Draghi che significa che il PD va al governo
con la Lega da solo che significa la fine dell'alleanza di csx che significa la
destra al 999998986489% che significa che non dormo ecco in sostanza


Con il passare delle ore, però, gli animi si raffreddano. La situazione muta
velocemente e trovare una coerenza in ciò che accade non risulta affatto
semplice. Proviamo dunque a raccontare le giornate che hanno portato
dall'appello di Mattarella alla nascita del governo Draghi concentrandoci, ad
uno ad uno, sui principali attori in campo: i partiti. 


La Lega


Matteo Salvini spiazza tutti, rimescola le carte in gioco e fa saltare gli
equilibri. La Lega rende noto di voler entrare a far parte della maggioranza.
PD, 5 Stelle e LeU oscillano tra il panico e il disorientamento, alternando veti
e fredde aperture, richiamati da un lato dal viscerale antagonismo nei confronti
della Lega, dall'altro dall'appello alla responsabilità del presidente
Mattarella. Nel frattempo Salvini, con un atto di trasformismo talmente
spudorato da risultare volgare, si scopre europeista, orientato verso una
fiscalità progressiva, perfino a favore di una modalità di gestione dei flussi
migratori "sul modello tedesco o spagnolo". Addirittura Borghi e Bagnai, i
teorici del No Euro della Lega, plaudono all'avvento di Draghi, con Claudio
Borghi (uno che su twitter, come foto di copertina, ha la sua faccia
photoshoppata sulle diecimila lire, ancora nel momento in cui sto scrivendo) che
arriva a dire che "Draghi è un fuoriclasse, se gioca nella nostra squadra".


La foto di copertina su Twitter di Claudio Borghi


Ma perché Salvini è voluto entrare in un governo guidato dal più europeista
degli europeisti dopo essersi schierato, per tanti anni, contro le politiche
dell'UE?


A questa domanda possiamo dare due risposte, che non si escludono a vicenda: una
risposta politica e una risposta strategica.


La risposta politica


La Lega è uno dei due unici veri partiti, in senso novecentesco, rimasti nel
panorama politico italiano, insieme al PD. In quanto tale è animata da correnti
interne, interessi divergenti, visioni anche contrapposte e un'innegabile
orientamento governista. Nelle scienze politiche si evoca spesso la distinzione
tra partito personale e partito personalizzato (qui un link per chi volesse
approfondire). La differenza tra i due modelli partitici sta nel fatto che nel
partito personale tutte le decisioni sono sotto il controllo del leader, non si
muove foglia che il leader non voglia. È il caso di Italia Viva o di Forza
Italia alle origini. Nel partito personalizzato, invece, un leader forte serve
come scorciatoia comunicativa, un modo per portare gli elettori ad affezionarsi
ed identificarsi, ma il potere decisionale non è concentrato in un uomo solo: è
condiviso con altri centri di potere all'interno del partito. La cosa importante
da capire qui è che la Lega non è un partito personale, ma solo un partito
personalizzato. In ultima analisi, un partito nel senso originale della parola. 


Per cui, nella Lega, hanno in realtà sempre convissuto visioni, anche
economiche, tra loro in contrasto. Da un lato Giancarlo Giorgetti, il numero due
della Lega, portabandiera delle istanze più moderate, vicine a Forza Italia, e
dall'altro l'euroscetticismo più puro di Borghi e Bagnai. Questa giravolta può
essere vista, dunque, non semplicemente come volgare trasformismo (che tale
comunque rimane), ma anche come l'affermazione di una visione interna
sull'altra, una restaurazione, chissà se temporanea, della preponderanza
dell'anima moderata della Lega su quella estremista.


Il momento del giuramento di Giancarlo Giorgetti per il governo Draghi


La risposta strategica


La risposta strategica sta invece in una legge matematico-politica che è stata
molto invocata in queste settimane, e che possiamo parafrasare nel modo
seguente:


"Il tasso di politicità di un governo è inversamente proporzionale all'ampiezza
della propria maggioranza"


Ciò vuol dire che più una maggioranza è ampia, quindi più partiti stanno dentro,
e più sarà difficile mettere d'accordo tutti, più sarà fragile l'equilibrio dei
compromessi e più il governo si limiterà a pochi provvedimenti, urgenti e
condivisi. Meno partiti stanno dentro, invece, e più è coesa una maggioranza,
più è facile che si abbiano visioni comuni e dunque il governo può agire su più
campi, anche divisivi.


Alla luce di questa legge è facile comprendere perché Salvini abbia voluto
entrare in maggioranza: il suo ingresso non solo limita il raggio d'azione delle
politiche del governo Draghi a provvedimenti urgenti e condivisi, ma rende
l'equilibrio più precario e avvicina il più possibile una fine del governo e la
conseguente chiamate alle urne. Senza Salvini questo governo avrebbe avuto la
maggioranza del Conte II + Forza Italia. Non ci sarebbe stato motivo di
immaginarne una fine precoce, poiché avrebbe avuto un'investitura politica salda
ed importante. Con Salvini dentro, invece, questo diventa davvero un "governo di
salvezza nazionale", un "governo di emergenza", un "governo tecnico", tutte
formule che ne richiamano la straordinarietà e dunque la provvisorietà.


Il Movimento 5 Stelle 


Nel frattempo, il Movimento 5 Stelle consuma il proprio psicodramma. Dopo la
prima dichiarazione di Vito Crimi, i pezzi grossi del Movimento tornano sui
propri passi (a testimonianza dell'irrilevanza politica del reggente) ed il
giorno dopo sia Luigi Di Maio che Giuseppe Conte aprono alla collaborazione con
il presidente incaricato Draghi. Non tutti sono d'accordo. L'ala "ortodossa",
che fa riferimento ad Alessandro Di Battista, mal digerisce la scelta del
Movimento di collaborare con Draghi, e promette battaglia. È necessario
l'intervento de "L'Elevato", Beppe Grillo, per cercare di compattare il partito.
Beppe Grillo si sente al telefono con Draghi per due ore, e poi va due volte
alle consultazioni con il presidente incaricato. A sentire Beppe Grillo, sembra
che tra i due vi sia una stima reciproca, tanto che il comico genovese arriva a
dire "Mario Draghi è un grillino, è uno di noi!". Il Movimento 5 Stelle avanza
una serie di proposte al premier incaricato, alcune cadono nello spazio di una
notte (vedi patrimoniale, sigh), complici anche i veti della Lega in merito,
altre invece diventano di bandiera, per via della loro popolarità ma anche della
scarsa carica polarizzatrice. In particolare, è la proposta del super ministero
della transizione ecologica a diventare l'argomento principale del Movimento
durante la fase delle consultazioni. Si tratta della proposta di accorpare i due
ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo Economico, sul modello già seguito da
altri paesi (Spagna e Francia su tutti), per portare avanti in maniera più
decisa una serie di battaglie ambientaliste. Una proposta su cui nessuno,
nemmeno la fronda più battagliera all'interno dei 5 Stelle, ha nulla da ridire. 


Beppe Grillo alle consultazioni con Mario Draghi. 


Ma lo scontro finale tra le anime del Movimento è ormai inevitabile. Uscito dal
primo giro di consultazioni con Mario Draghi, Beppe Grillo pubblica un post su
facebook, con una citazione da lui attribuita a Platone.


"Non conosco una via infallibile per il successo, ma una per l'insuccesso
sicuro: voler accontentare tutti"


Beppe Grillo non è Mattarella, ma è un comico, e con le parole sa giocare anche
lui. Ecco che quindi questa citazione assume una doppia valenza: da un lato
sembra rivolta alla Lega, che blocca le proposte dei 5 Stelle (patrimoniale) e
che i grillini non vorrebbero proprio nella compagine di governo. Dall'altra, è
rivolta alla frangia riottosa dei 5 Stelle, quella del No a Draghi a prescindere
da tutto. Dopo il secondo giro di consultazioni lo scontro si inasprisce. I
ribelli lanciano un evento su Zoom, il V-Day 2021, richiamando gli eventi che,
tanti anni fa, hanno reso celebre il movimento di Beppe Grillo. Tra i
partecipanti una ventina di parlamentari grillini, alcuni vicini a Di Battista,
altri cani sciolti, alcuni con un passato di uscite pessime, come Elio Lannutti,
che su Facebook condivideva la bufala antisemita dei Protocolli dei Savi di
Sion.


L'unico modo per sanare questa frattura è quella di sottoporre la scelta di
entrare nel governo Draghi al voto sulla piattaforma Rousseau, lo strumento di
democrazia interna utilizzato dagli iscritti del Movimento. Nonostante le
resistenze iniziali, alla fine la fazione governista dà il via libera al voto su
Rousseau. La votazione era fissata per Mercoledì 10 Gennaio ma Beppe Grillo e
Davide Casaleggio, il figlio del co-fondatore del Movimento e proprietario della
piattaforma Rousseau, litigano per il quesito da inserire. Davide Casaleggio ha
in simpatia l'ala guerrigliera di Alessandro Di Battista, ed il quesito da lui
scritto sembrerebbe esser stato scartato da Beppe Grillo, che ne scrive uno di
suo pugno, dando vita ad un capolavoro della tragicommedia. 


“Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che
preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i
principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche
indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?” (sic)


Pur sorvolando sul grossolano errore di punteggiatura, non si può non notare
come questo quesito sembri già da sé indirizzare ad una risposta positiva. Non
che basti questo, sia chiaro, a decidere le sorti di una consultazione, ma è un
utile indizio di quanto polarizzante si sia fatta la questione all'interno del
Movimento 5 Stelle, e forse denota anche un po' l'ansia di Grillo nei confronti
di questa consultazione. Il voto ha luogo nella giornata di Martedì 11 Febbraio
e termina con una vittoria dei sì con il 59,3%. Subito dopo, Alessandro Di
Battista annuncia il proprio addio al Movimento, terminando (parole sue) una
bellissima storia d'amore durata 15 anni. E quindi lui, il più puro dei puri,
una volta l'erede designato di Beppe Grillo, abbandona la casa madre, per andare
chissà dove. Di Battista era ormai isolato da un po', superato dai tempi,
bloccato in quella fase adolescenziale del Movimento, quella delle proteste
rumorose, delle ribellioni, delle piazze e dei vaffa. Ma i tempi sono cambiati,
il Movimento si è fatto forza di governo, per realizzare i propri obiettivi si è
dovuto scontrare con le necessità del compromesso. Questa necessità Di Battista
non è mai riuscito a farsela andar bene. 



Alessandro Di Battista con la barba da storia d'amore finita male, nel giorno
dell'addio




Superato l'ultimo tornante del voto sulla piattaforma Rousseau, anche il
Movimento decide, senza tentennamenti, di entrare a far parte del governo
Draghi. 


Il PD e LeU


Il Partito Democratico ha interpretato, più di tutti durante questa crisi, il
ruolo di partito della responsabilità, attento esecutore (e realizzatore) delle
richieste del Quirinale. Per tale motivo, sin dall'inizio nessuno ha messo in
dubbio la partecipazione del principale partito del centrosinistra al governo
guidato da Mario Draghi. La situazione, però, ha iniziato a complicarsi quando
si sono fatte concrete le possibilità che la Lega entrasse a far parte del
governo Draghi. La speranza iniziale del PD era di proporre la cosiddetta
Maggioranza Ursula, PD-5S-Forza Italia. La Maggiorana Ursula prende il suo nome
da Ursula Von Der Leyen, la presidente della commissione europea, eletta con i
voti di queste tre forze politiche. Sempre nelle speranze del PD, il governo
Draghi sarebbe dovuto essere un governo politico, con giusto qualche innesto
tecnico oltre a Mario Draghi, ma senza strafare. Tutte queste speranze sono però
andate a farsi friggere nel momento in cui la Lega ha iniziato le operazioni per
entrare nella maggioranza. Inizialmente qualcuno vociferava che il PD mettesse
un veto sulla presenza della Lega nella maggioranza, minacciando di ritirarsi
dal governo per evitare una coesistenza con l'avversario più ostile, ma il
segretario ha continuato a fare appello alla responsabilità ed alla
straordinarietà di questo esecutivo.


I problemi del PD non si fermano però a questo. Il segretario Zingaretti è
sempre di più sotto attacco dalla minoranza interna, rappresentata in modo anche
piuttosto coeso dai gruppi parlamentari che, come spiego nel primo capitolo di
questa trilogia, sono stati selezionati da Matteo Renzi. La minoranza fa
pressioni per avere, all'interno del governo Draghi, almeno un ministero di
peso, minacciando velatamente guerra interna e l'accelerarsi di un processo che
porterà, molto probabilmente, il segretario Zingaretti ad essere sfidato dal
governatore dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, per il ruolo di leader del
Partito Democratico. Ancora una volta il convitato di pietra delle primarie PD
sarà Matteo Renzi.



Bonaccini e Zingaretti, potrebbero sfidarsi per la guida del PD nel prossimo
congresso




Dalle parti di Liberi e Uguali, il partito-federazione che riunisce le forze
politiche a sinistra del PD, non si dormono sonni tranquilli. Dubbiosi sin
dall'inizio, quelli di LeU hanno provato a mettere un veto alla Lega, ma è
presto caduto, vuoi per l'appello alla responsabilità del presidente Mattarella,
vuoi per il troppo piccolo peso parlamentare del gruppo, vuoi ancora per la
necessità di assicurare una continuità nell'unico ministero espresso dalla
formazione, quello della Sanità, diretto da Roberto Speranza, una casella fin
troppo centrale per lasciarla a qualcun altro. Ciononostante, la natura di LeU,
che è una federazione di partiti, non un partito, conduce inevitabilmente alla
frammentazione. La componente più lontana dal PD, Sinistra Italiana, decide in
assemblea di votare contro il governo Draghi, mentre la componente degli ex
democratici (Speranza e Bersani) vota compatta a favore di Draghi.


La chiusa della crisi


Dopo giorni di trattative, ipotesi e valutazioni, Mario Draghi presenta
finalmente la sua squadra di governo. Si tratta di un mix di tecnici e politici,
con i primi in minoranza numerica ma con il controllo di quasi tutti i ministeri
più importanti (Interni-Lamorgese, Giustizia-Cartabia, Economia-Franco). Per
quanto riguarda la componente politica, ci sono rigurgiti da tutte le parti. I 5
Stelle (4 ministeri di cui solo uno di peso: gli Esteri a Luigi Di Maio) si
sentono sottorappresentati rispetto al peso parlamentare. Il PD è logorato dalle
faide interne e dalle questioni riguardanti la mancata rappresentanza femminile
tra i titolari dei ministeri. Anche Forza Italia, più silenziosamente, si trova
ad affrontare beghe interne, dopo che la componente moderata di Brunetta,
Gelmini e Carfagna si è trovata rappresentata in toto, mentre quella più vicina
alla Lega, rappresentata da Anna Maria Bernini e Antonio Tajani si è trovata con
un pugno di mosche. Il governo giura il giorno dopo la presentazione della lista
dei ministri e dopo cinque giorni riceve la fiducia del Senato e della Camera. 


Nel discorso presentato alle camere, Mario Draghi espone il suo programma, i cui
pilastri erano già noti da tempo. Il Recovery, l'ambiente, il piano vaccinale, i
giovani e la scuola, la parità di genere. Durante il discorso nomina anche
Giuseppe Conte, tributandolo. In aula, dai banchi dell'ex maggioranza, parte un
lungo applauso. È l'atto finale, pacifico e conciliatorio, della crisi di
governo ormai, finalmente, alle nostre spalle. Partono i titoli di coda. 


Questa crisi si è andata trascinando per mesi, prima come ipotesi, poi
concretamente. Seguirla, capirla, interpretarla, non è stato semplice. Ci ho
voluto provare, dedicando alla crisi questa trilogia che adesso si conclude. Ho
cercato di raccontarla con il mio stile, di renderla accessibile e semplice per
tutti, anche per chi non si dovesse interessare troppo delle beghe interne di
partiti e parlamentari. Ho cercato di tirarne fuori una storia, con i suoi
personaggi, la sua trama, le sue trame, le sue regole. Ho tentato di
appassionare. Spero di esserci riuscito. Qualunque sia la vostra opinione in
merito, vi invito a condividerla con me. Scriverò ancora. Non so dire quando:
dovrò attendere di trovare una storia che valga la pena raccontare. Non so di
cosa esattamente, ma penso di poter dire con un certo grado di sicurezza che
c'entrerà con la politica. Fino a quel momento, comunque, vi saluto
calorosamente. E vi ringrazio. 


Un abbraccio.


- Gaetano Scaduto.




https://quifinanza.it/editoriali/video/cosa-significa-governo-di-alto-profilo-draghi-mattarella/458266/


https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-crisi-tavolo-sul-programma-ultime-ore-prima-di-salire-al-colle


https://www.ilmessaggero.it/politica/governo_conte_renzi_draghi_governissimo_ultime_notizie_2_maggio_2020-5204002.html


https://www.rivisteweb.it/doi/10.1415/83199


https://www.youtrend.it/2013/01/29/personalizzazione-e-partiti-personali-sono-la-stessa-cosa/


https://www.ilpost.it/2021/02/03/chi-e-mario-draghi/


https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2021/02/02/lappello-di-mattarella.-il-testo-integrale-del-discorso-_e3bd6b82-c410-4d5a-a2d3-db9a72cf1b25.html


https://stream24.ilsole24ore.com/video/italia/grillo-credevo-draghi-banchiere-dio-ma-e-grillino/ADTpw2IB


https://www.ilblogdellestelle.it/2021/02/un-super-ministero-per-la-transizione-ecologica.html


https://www.huffingtonpost.it/entry/grillo-la-via-per-linsuccesso-sicuro-e-voler-accontentare-tutti_it_601ea54cc5b6c56a89a15882


https://www.corriere.it/politica/19_gennaio_22/elio-lannutti-post-savi-sion-scuse-david-puente-1687a5ae-1e41-11e9-b085-7654f7acb9a3.shtml


https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/02/10/news/lite_grillo_casaleggio_rousseau_governo_draghi-287006886/


https://www.ilmessaggero.it/AMP/video/di_battista_col_m5s_stata_bellissima_storia_d_amore-5762168.html


Si ringrazia Leonardo per la revisione.

Pubblicato da Gaetano Scaduto alle 02:28 Nessun commento:
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GIOVEDÌ 11 FEBBRAIO 2021


L'INTERMEZZO: DAL CONTE TER A MARIO DRAGHI, UNA STORIA DI PERSONAGGI








Questo articolo è il secondo di tre capitoli sulla crisi di Governo di inizio
2021. È un intermezzo, dove analizzeremo gli eventi e le manovre avvenute tra
gli ultimi giorni del Conte II e la chiamata di Mario Draghi al Quirinale.
Resta, come sempre, la missione di offrire un articolo che sia alla portata di
tutti, anche di chi la politica non l'ha mai davvero seguita, e che possa
risultare accattivante in quanto storia e racconto, prima che cronaca. Ci
lasceremo andare a suggestioni e leggerezze, perché un intermezzo serve anche a
questo: rigenerarsi prima dell'atto finale. È un capitolo che si sviluppa
attraverso i suoi personaggi, più che attraverso gli eventi. Alcuni freddi e
calcolatori, come Goffredo Bettini e Bruno Tabacci, altri emotivi e passionali,
come Matteo Renzi e Gregorio De Falco, ma tutti presenti e attivi nell'arena,
spietata, di questa crisi di governo. Mettetevi comodi allora e rilassatevi:
questo capitolo è per rigenerarci.

 Prologo - Tra caronti e capitani

"Io, per quel nome, un'idea ce l'avrei"

Era in corso una estenuante riunione tra i deputati del Movimento 5 Stelle, che
aveva debilitato i giovani parlamentari grillini per ore, quando
finalmente Alfonso Bonafede, uno dei deputati più in vista del Movimento, se ne
uscì con questa frase. 

Era il Settembre 2013, un Settembre torrido al termine di un'estate torrida, in
un anno tutto sommato calmo. L'estate appena passata vedeva prima in classifica
Wake Me Up di Avicii, il presidente del consiglio era Enrico Letta, il
presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano, il capitano della nazionale
era Gigi Buffon, ed io avevo appena iniziato la quinta ginnasio.

Alfonso Bonafede aveva 37 anni. Nato a Mazara del Vallo, in provincia di
Trapani, nella Sicilia più profonda e autentica, un'adolescenza segnata dagli
anni più drammatici della storia siciliana. Poi, a 19 anni, il trasferimento a
Firenze, a studiare giurisprudenza, la laurea, con voti discreti, e nel 2006 il
dottorato a Pisa e la abilitazione da avvocato. Si avvicina alla politica nella
fase embrionale del Movimento 5 Stelle, quando ancora non si chiamava nemmeno
così, erano solo gli "Amici di Beppe Grillo". Si candida a sindaco di
Firenze con la "Lista Civica Beppegrillo.it", raccogliendo la bellezza di 3796
voti, arrivando settimo su nove candidati. A vincere quelle elezioni sarà un
giovanotto sbarbato dall'inglese maccheronico del quale negli anni successivi si
sarebbe sentito molto parlare. Ma questa è un'altra storia. Il 25 Febbraio del
2013, infine, Alfonso Bonafede viene eletto alla camera dei deputati nelle
elezioni politiche del 2013. 

                                     
Continua la rubrica "foto brutte usate dagli avversari politici per farti
sembrare più cattivo", iniziata nell'articolo precedente. Qui, Alfonso Bonafede.

Elezioni stranissime, quelle. Il PD, che sarebbe dovuto essere il trionfatore
assoluto di quella campagna elettorale, non riuscì ad essere il primo partito.
La coalizione di centrosinistra era quella con più voti, ma non essere il
partito più votato portava con sé delle implicazioni che andavano ben oltre il
simbolico. Nelle storiche parole del segretario di allora, Pierluigi Bersani, il
PD aveva "non vinto".

Il primo partito, con lo 0.1% in più del PD (45.000 voti) era una creatura
politica allora ambigua e incomprensibile, temuta, caotica, ma anche innovativa
e spiazzante. Il Movimento 5 Stelle. 

La legge elettorale di allora, che premiava le coalizioni, ebbe l'effetto di
consegnare al PD ben 292 seggi e al Movimento 5 Stelle solo 108. In coalizione
con il PD c'erano poi altri tre partiti: Sinistra, Ecologia e Libertà, di Nichi
Vendola, il Sudtiroler Volkspartei, il partito degli altoatesini, e Centro
Democratico, un piccolissimo partito di nostalgie democristiane fondato due mesi
prima delle elezioni, che prese lo 0.5% (167.000 voti). Lo 0.5% può sembrar
poco, ma fu ciò che permise, alla coalizione di Centro-Sinistra, di far scattare
il premio di maggioranza e guadagnare i seggi che avrebbero permesso di
governare (insieme al Centro) per i cinque anni successivi. Senza quello 0.5% di
Centro Democratico, il premio di maggioranza sarebbe andato al Centro-Destra. Il
leader di CD era una vecchia volpe della politica nazionale, uno che è
sopravvissuto alla caduta del muro di Berlino, a tangentopoli, alle torri
Gemelle, alla crisi economica e adesso al Covid. Un uomo che per trent'anni ha
conosciuto le aule parlamentari, e da molto prima conosce quelli che le
frequentano. Stiamo parlando di Bruno Tabacci.

                                    

Bruno Tabacci con l'ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita. Nel momento in
cui è stata scattata questa foto, Alfonso Bonafede faceva le scuole medie.

Torniamo adesso a quel Settembre 2013. Il 16 di Settembre, al largo dell'Isola
del Giglio, era finalmente stata rimessa in asse la Costa Concordia. Quella nave
era rimasta lì, distesa su un fianco, per più di un anno e mezzo, inerte. Un
disastro che causerà 32 morti e 110 feriti, da imputare all'irresponsabilità del
capitano della nave, Francesco Schettino, condannato a 16 anni per omicidio
colposo plurimo. La responsabilità invece, la voce della ragione, venne
incarnata da un altro personaggio, un altro Capitano, l'uomo che si era occupato
in prima persona di coordinare i soccorsi, il capo della sezione operativa della
Capitaneria di porto di Livorno. Non tutti si ricorderanno il suo nome, ma tutti
si ricordano la frase che lo rese famoso: "Schettino, vada a bordo, cazzo!". Si
tratta di un militare colto e assennato, con una laurea in giurisprudenza e un
amore incontenibile per il mare, che l'ha condotto a dedicare a quest'ultimo la
sua vita. Il Capitano Gregorio De Falco.  


Il capitano De Falco con indosso una innocente coppola. Sembrerebbe proprio un
uomo tranquillo e contenuto.

E torniamo adesso in quella stanza, coi deputati grillini intenti a discutere.
Erano in parlamento da meno di sei mesi, ed erano ancora inesperti e spaesati,
idealisti e, probabilmente, ingenui. Erano ancora alle prime armi. Oggi, la
retorica dei grillini come dilettanti allo sbaraglio lascia il tempo che trova:
molti di loro, soprattutto quelli che occupano le posizioni apicali, hanno fatto
esperienza per cinque anni all'opposizione e poi per tre hanno governato. Non
possono certo più essere definiti dei principianti. Ma nel Settembre del 2013,
verosimilmente, lo erano. Tra questi Alfonso Bonafede, che ruppe l'impasse con
quella frase.

"Per quel nome, nel consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, io
un'idea ce l'avrei". Il nome era quello di un suo professore all'università di
Firenze, un professore che Bonafede stimava molto, tanto da chiedere addirittura
se potesse fargli da assistente. Quel professore era un uomo sconosciuto fino a
quel momento ai 5 Stelle, ma la raccomandazione calorosa di uno come Bonafede
era una garanzia sufficiente per potersi fidare. Quel professore, si sarà
inteso, era Giuseppe Conte. 

Passano gli anni e si arriva al 2020, e le vite di questi personaggi proseguono.

Bonafede si farà per anni le ossa in commissione giustizia alla camera. Poi, nel
2018, a seguito del trionfo elettorale del Movimento, diventa ministro della
giustizia nel governo Conte I e nel 2019 sarà uno dei pochissimi ad essere
riconfermato, nella stessa posizione, nel governo Conte II. Un'ascesa
irresistibile quella di Bonafede, oggi un'intoccabile tra i pentastellati, ma,
come tutti gli intoccabili, anche un uomo con molti nemici. Tra i peggiori
nemici di Bonafede, oggi, c'è il vincitore di quelle elezioni a Firenze che
furono la sua prima gavetta elettorale: Matteo Renzi.


Il professor Giuseppe Conte mostra la propria gratitudine al suo assistente
Alfonso che gli ha corretto tutti gli scritti del primo appello in tempo record,
inizio anni 2000.

Bruno Tabacci siede ancora tra gli scranni del parlamento, alla camera, ed è
arrivato alla sua sesta legislatura. È stato rieletto nel 2018, grazie ad una
strategia da vecchia volpe politica. 

Il partito +Europa di Emma Bonino godeva, alla vigilia delle elezioni del 2018,
di un buon consenso, ma non era riuscito a raccogliere le firme necessarie a
presentare la propria candidatura. Tabacci decide di salire a bordo del carro di
+Europa ed in cambio porta in dote il simbolo di Centro Democratico. La legge
italiana, difatti, prevede che ci si possa presentare alle elezioni se, in
alternativa alle firme, si presenta un simbolo che era già stato presentato alle
elezioni precedenti. Tabacci diventerà poi presidente di +Europa, ma ne uscirà
alla formazione del secondo governo Conte, in polemica con la decisione del
partito della Bonino di collocarsi all'opposizione. E così Bruno Tabacci si
ritrova nel gruppo misto, ma non si perde certo d'animo. Oggi ha radunato
attorno a sé un gruppetto di fuoriusciti grillini. Gente senza una guida,
deputati alla prima esperienza politica spaesati ed in cerca di una bussola, di
un Virgilio che li conduca nel loro viaggio e gli sveli le tecniche ed i segreti
dell'arte politica. E così, tra un caffè al bar e una pastasciutta al pranzo,
quest'uomo, che si è autodefinito "traghettatore di anime perdute", li cresce e
li istruisce, con l'autorevolezza conferitagli dalla sua esperienza.

Il Capitano De Falco, invece, viene eletto al Senato nel 2018, con il Movimento
5 Stelle. La sua permanenza nel Movimento, però, non durerà a lungo. Dopo nove
mesi verrà espulso per aver assunto, in parlamento, alcune posizioni contrarie a
quelle espresse dal suo partito, tra cui l'opposizione al Decreto Sicurezza di
Salvini. Il Capitano si ritroverà quindi naufrago nel gruppo misto e sempre in
aperta ostilità con Matteo Salvini. Una malsopportazione reciproca che deflagra
in un momento divenuto iconico quando, durante la crisi di governo del 2019,
quella che portò alla caduta del governo Conte I, De Falco mimerà per diversi
minuti, con il volto trasfigurato dalla rabbia, un gesto verso Salvini. Il
labiale è chiarissimo "Buffone, vai a casa!".


Il Capitano De Falco contro Matteo Salvini al Senato. Non esattamente il tipo di
persona a cui vorresti fregare la ragazza.




Atto I - Il tempo dei costruttori


Il governo Conte era sopravvissuto al voto di fiducia in Senato per il rotto
della cuffia, ma non passò molto tempo prima che tutti si accorgessero che si
trattava, in tutto e per tutto, di una vittoria mutilata. La maggioranza era
stata raggiunta solo per via dell'astensione di Italia Viva, e un governo con
dei numeri così risicati sarebbe risultato bloccato, paralizzato dai veti
incrociati delle forze politiche di centro (tra tutte il partito di Renzi) che
avrebbero avuto il potere di affossare anche il più piccolo dei
provvedimenti. Era quindi necessario un reclutamento. Conte ne parlava coi suoi
fedelissimi: quei costruttori tanto invocati era il momento che si facessero
vivi. I pretoriani del presidente si muovono con diligenza nella smaniosa
ricerca di senatori. Li cercano ovunque: senatori moderati di Forza Italia,
renziani che non vogliono uscire dalla maggioranza, ex democristiani dallo
spiccato istinto di sopravvivenza. Questa ricerca, però, non può andare avanti a
lungo. Per il 27 Gennaio è fissato un voto su una relazione del ministro
Bonafede, bestia nera di Italia Viva, che stavolta non ha intenzione di
astenersi. I numeri per avere la maggioranza su quella relazione non ci sono, e
ciò significa che il governo rischia di essere messo in minoranza. Sarebbe la
fine, inequivocabile, non solo del Governo Conte II, ma anche della possibilità
di Conte di guidare un altro esecutivo. 


C'è bisogno di qualcuno che muova qualcosa tra gli scranni del parlamento, sia
al Senato che alla Camera. Un compito che viene affidato a Bruno Tabacci e
Gregorio De Falco. 
La missione del Capitano e del Traghettatore è più chiara che mai: raccogliere
naufraghi ed esuli di tutti i partiti e condurli nel porto sicuro della
maggioranza. I due fondano il gruppo parlamentare "Europeisti - Maie - Centro
democratico", ma fondare un gruppo non è abbastanza. I responsabili non
arrivano. Da Italia Viva nessuno osa tradire Renzi. Il centrodestra serra i suoi
ranghi, e le formazioni centriste ad esso associate (UDC, Noi per l'Italia,
Cambiamo!) non concedono un millimetro. Emblematico risulta essere, a questo
proposito, il caso di Luigi Vitali, senatore di Forza Italia che la sera del 27
Gennaio annuncia di voler passare nella compagine di Tabacci e De Falco, ma la
mattina del 28 ci ripensa, dopo aver sentito telefonicamente Berlusconi e
Salvini. Il centrodestra sembra essere più compatto che mai.


Lorenzo Cesa, leader dell'UDC, una delle piccole formazioni di centro
corteggiate da Conte. Su di lui sarà aperta un'indagine per concorso esterno in
associazione mafiosa il giorno successivo la chiusura definitiva a Conte. Il
fatto che in questa foto sembri cattivo giuro che non è voluto. 

Nel frattempo, oltre a De Falco e Tabacci, altre forze si muovono a sostegno di
Conte. Una in particolare sembra spiccare su tutte le altre, per eccentricità e
per imponenza: Goffredo Bettini.


Bettini nasce a Roma nel 1952, in una famiglia aristocratica che l'ha cresciuto
da bambino prodigio (il padre, racconta Bettini al Corriere, da bambino gli
faceva leggere Dostoevskij). A 14 anni, mentendo sulla propria età, si iscrive
al Partito Comunista Italiano, e da lì sarà vero amore. Come succede con tutti
gli amori, quando l'esperienza del PCI giunge al capolinea, Bettini attraversa
un forte dolore, una depressione che (racconta lui all'Espresso) durerà per tre
anni.


Ma Bettini è un pragmatico e un intellettuale. La sua vita va avanti: deputato,
senatore, europarlamentare. Si compra una casa a Koh Samui, dove vive insieme a
cinque famiglie thailandesi. Indossa spesso camicioni con scollo alla coreana
che gli conferiscono una certa aria zen. Nel PD lo chiamano "Il monaco". Legge,
scrive e studia tantissimo, ma soprattutto consiglia. Bettini non assume cariche
in prima persona, ma manovra e consiglia, seleziona ed indica. Un approccio da
Prima Repubblica che alimenta la sua immagine misteriosa e al di sopra delle
parti. Non abbastanza, però, per non entrare nel mirino del rottamatore, Matteo
Renzi.


In tempi non sospetti, Bettini aveva anche sostenuto Renzi, ma oggi i due non
potrebbero essere più lontani. Sembra addirittura (dal Corriere) che dopo questa
crisi di governo non si parlino nemmeno più. Ed in effetti, le cose tornano.
Bettini è l'emblema della vecchia guardia postcomunista del PD, Renzi è il
rottamatore. Bettini è un intellettuale di pensiero, Renzi un uomo d'azione. I
due non potrebbero essere più diversi, ed il loro duello si consuma nell'arena
della crisi di governo.


Bettini è stato, negli ultimi tempi, il grande protettore di Giuseppe Conte,
l'uomo che più di tutti, all'interno del PD, si era speso in prima persona per
la sopravvivenza politica dell'avvocato. Membro della direzione nazionale del
Partito Democratico e sostenitore di Zingaretti alla segreteria, Bettini si è
ritagliato il ruolo di tramite tra il presidente del Consiglio ed il Partito
Democratico. A lui faceva capo l'operazione responsabili, di cui De Falco e
Tabacci erano i luogotenenti parlamentari. Era lui che telefonava a Gianni
Letta, numero 2 storico di Silvio Berlusconi, per chiedere il supporto di una
pattuglia di responsabili di Forza Italia. 
Bettini cerca in tutti i modi di ricucire le fila di un governo che si sfalda
ogni giorno di più, ma Renzi fa saltare ogni ponte. Bettini si muove nel
sottobosco parlamentare, Renzi nei salotti televisivi. 


Matteo Renzi e Goffredo Bettini in una foto dei primi anni della stagione
renziana. Bettini ne fu un sostenitore, in un primo momento, ma due caratteri, e
due storie, così diversi non potevano che collidere. 


Il 26 Gennaio diventa chiaro che la situazione non si risolverà in poco tempo, e
comunque certamente non prima del fatidico voto su Bonafede. Conte è messo
all'angolo e costretto a compiere la scelta necessaria: sale al Quirinale
e rassegna le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica. Adesso è
crisi per davvero. 


Le forze politiche sono in subbuglio, le ipotesi di fantapolitica si inseguono.
A chiunque si chieda salta fuori una soluzione diversa: Conte è ancora
disperatamente alla ricerca dei responsabili, Renzi si dice disposto a trattare
per rientrare in maggioranza, il PD, Leu e i 5 Stelle difendono il premier
uscente, Berlusconi invoca un governo di unità nazionale, Salvini e Meloni
vogliono andare a elezioni, ma poi Salvini ci ripensa e vuole anche lui il
governo di unità nazionale, anzi no, vuole le elezioni. Le dichiarazioni si
inseguono sempre più indecifrabili, si costruiscono speculazioni sulle ambiguità
semantiche nelle dichiarazioni dei leader. Nessuno sa cosa starà per succedere.
Si lanciano ogni giorno nomi per un nuovo presidente, dai più realistici ai più
fantasiosi: Conte Ter, Di Maio, Gentiloni e Conte va a fare il commissario
europeo, Draghi, Cartabia, Roberto Fico, Luciana Lamorgese.


Il presidente della Repubblica apre le consultazioni con i partiti. Leu, PD, 5
Stelle e il neonato gruppo di De Falco e Tabacci fanno tutti convintamente il
nome di Giuseppe Conte. Il centrodestra dice a Mattarella di voler andare al
voto ma di non escludere del tutto altre soluzioni istituzionali. Renzi, dal
canto suo, mostra uno spiraglio per riaprire il dialogo con la maggioranza,
seppure non entusiasta della possibilità di un terzo governo Conte. "Si discuta
prima di contenuti, poi di nomi", dice Renzi, una formula che vuol significare
che se Conte ci tiene davvero a rimanere presidente del consiglio allora Italia
Viva è pronta a portargli via anche le mutande. 


Giuseppe Conte e Paolo Gentiloni nel momento del passaggio di consegne nel ruolo
di presidente del Consiglio. Oggi Gentiloni è commissario europeo agli affari
economici. Tra le varie fantasiose ipotesi di governo, c'era quella di
richiamare Gentiloni al governo e mandare Conte a fare il commissario. 


Atto II - L'Esplorazione 


Il 29 di Gennaio terminano le consultazioni con i partiti e Mattarella prende
una decisione: mandato esplorativo a Roberto Fico, il presidente della Camera.
Prima di passare alle considerazioni, vediamo di capire bene cosa sia un mandato
esplorativo. La Treccani definisce il mandato esplorativo nel seguente modo:



"L’incarico che il Capo dello Stato affida a un uomo politico per una prima
indagine sulla possibilità di formare il governo"


Non si tratta dunque, ed è bene che sia chiaro, del conferimento di un vero e
proprio "mandato". Si tratta di una missione. Il Presidente della Repubblica
affida, solitamente al presidente della Camera o del Senato, l'incarico di
avviare un secondo giro di consultazioni, più stretto ed informale, più politico
e meno istituzionale, per raccogliere informazioni approfondite sulla
concretezza della possibilità di una maggioranza. Si tratta di una funzione che
non è presente nella costituzione, ma è diventata una prassi nella politica
italiana. Dal 1957 sono stati conferiti in totale 12 mandati esplorativi. Al
termine del mandato esplorativo, l'incaricato discute con il Presidente della
Repubblica le conclusioni alle quali si è giunti, e quest'ultimo poi prende una
decisione.


Roberto Fico è nato a Napoli nel 1974. Napoletano verace (si è laureato con una
tesi sulla musica neomelodica), fa parte di quel gruppetto di fedelissimi della
prima ora di Beppe Grillo in cui vi era anche Alfonso Bonafede. Da sempre
rappresenta l'area in assoluto più a sinistra del Movimento 5 Stelle,
l'ortodossia che ha a cuore diritti, ambiente e beni pubblici, ben diversa
dall'ala populista rappresentata invece da Alessandro Di Battista e dall'anima
governista incarnata da Luigi Di Maio e Vito Crimi.


Fico ha dunque questa missione: insieme ambasciatore e paciere, notaio e
diplomatico, dovrà cercare di trovare il sostegno ad un nuovo governo "a partire
dal perimetro della maggioranza uscente" (Mattarella, 29 Gennaio). Fico riunisce
le forze politiche attorno ad un tavolo e cerca di trovare una sintesi.


Tra le cose per cui si ricorda Roberto Fico, forse la più nota, mediaticamente,
è questa foto: il presidente della Camera va al lavoro in autobus. Che si tratti
di un atto nobile e tenero o di una volgare trovata populista, sta a voi
giudicarlo.


Ma questa ricerca si fa ogni giorno più complicata. Le trattative sono tese, si
discute di nomi e di temi polarizzanti. L'appuntamento di Fico con il presidente
Mattarella era stato fissato per la mattina di Martedì 2 Febbraio ma, dato lo
stato delle trattative, Fico chiede al capo dello stato un'altra mezza giornata
per cercare di trovare una quadra. Nel pomeriggio di Martedì però, la situazione
precipita ed il banco salta. L'intesa non viene trovata.


Riguardo ciò che è successo al tavolo delle trattative Martedì 2 Febbraio le
versioni dei partiti divergono. I 5 Stelle accusano Renzi di aver voluto parlare
solo di nomi piuttosto che di contenuti, rilanciando veti su veti per rendere
sempre più inaccettabile per i grillini una mediazione fino a far saltare il
banco. Renzi dal canto suo dice che i pentastellati non sono stati disposti a
cedergli nulla di ciò che aveva chiesto, dalla rimozione di ministri come
Bonafede e Azzolina ad un ridimensionamento del ruolo del commissario speciale
per l'emergenza Domenico Arcuri, passando per la richiesta di prendere almeno
una frazione del MES. La versione del PD coincide in buona parte con quella dei
pentastellati. Non potremo mai sapere con certezza cosa si sia detto a quel
tavolo. Certo è che, conoscendo gli eventi che sono seguiti, ovvero un esito
che era esattamente ciò che Renzi auspicava dall'inizio, le cose sono due: o
Renzi è il politico più fortunato della storia, che viene mosso solo da puro
idealismo e spirito di servizio e per questo viene baciato dagli Dei che gli
garantiscono un destino favorevole, oppure è lo stratega più abile e
spregiudicato della politica italiana, in grado di dare luogo ad una crisi di
governo caotica e scombinata e di pilotarla esattamente verso la soluzione a lui
gradita, senza che nessuno sia riuscito a metterlo all'angolo e bloccare il suo
gioco.


Probabilmente sono stati commessi degli errori tattici, ma è anche vero che
Renzi si muoveva in una situazione a lui favorevole. Le aperture del
centrodestra ad una soluzione istituzionale gli hanno dato la sicurezza per
tirare la corda fino a farla spezzare senza il rischio di vedersi risucchiare
verso le elezioni. E quindi la posta veniva alzata ad ogni incontro, premendo
sempre su tasti dolenti, sui punti sui quali era consapevole che gli ex alleati
non avrebbero potuto trattare. Batteva su Bonafede, per il quale a tratti
Giuseppe Conte sembrava pronto a farsi scudo con il proprio corpo, batteva sul
MES, sul quale i 5 Stelle non avrebbero mai potuto aprire, tenuti in scacco
dalle tensioni interne. Nessuno, però, è stato capace di scoprire il bluff di
Renzi (se davvero di bluff si trattava), di concedergli qualcosa per far vedere
a tutti che non si sarebbe accontentato perché il vero obiettivo era altro e,
quelli portati al tavolo da Fico, pretesti per far saltare il banco. Renzi così
ha potuto ottenere quello che voleva dipingendosi come il politico assennato,
disposto a trattare ma verso il quale, da parte degli altri, non c'era alcuna
apertura. 


Roberto Fico aveva già ricevuto un incarico esplorativo, nell'Aprile del 2018,
per verificare la possibilità di un governo tra PD e M5S. Anche quel mandato
esplorativo fallì ed un mese dopo nacque il governo Lega-M5S, ma Fico dichiarò,
sbagliando, che l'esito era stato positivo. 


Le trattative saltano, dunque, e Fico rimette nelle mani di Mattarella il
mandato esplorativo con esito negativo. Mattarella deve prendere una decisione e
deve prenderla in fretta. Preso atto dell'impossibilità di formare un governo
politico a partire dalla vecchia maggioranza restano solo due ipotesi: un
governo tecnico o le elezioni. Il presidente della Repubblica ha un ruolo
istituzionale, molte delle sue scelte sono quasi obbligate, ma qui Mattarella
compie una di quelle scelte di carattere che definiscono una presidenza. Il
Presidente decide: non è il momento di andare ad elezioni, e non solo per il
rischio sanitario, ma anche e soprattutto perché c'è bisogno di una gestione
forte e immediata di dossier come il Recovery e l'attuazione del piano
vaccinale, che non possono attendere i tempi di una campagna elettorale e
l'insediamento di un nuovo esecutivo. Mattarella decide per il governo tecnico e
mette in campo il nome più prestigioso che l'Italia può offrire, l'opzione
nucleare: Mario Draghi.






Il nostro intermezzo termina qui, al definitivo tramonto del governo Conte II, e
all’alba del primo Governo Draghi La nostra storia continuerà, con il terzo ed
ultimo capitolo, e arriverà fino alla nascita del nuovo esecutivo. Vi ringrazio
per aver letto e vi invito a dirmi la vostra, commentando o scrivendomi. Un
ringraziamento va anche ad Aurora e Leonardo per la revisione. Un abbraccio.



- Gaetano Scaduto




Fonti sparse


https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/01/22/news/crisi_di_governo_conte_bonafede-283827501/


https://www.repubblica.it/politica/2018/11/03/news/m5s_di_maio_de_falco_decreto_sicurezza-210706370/?ref=search


https://www.repubblica.it/politica/2021/01/14/news/tabacci_crisi_responsabili_governo_conte-282576254/


https://www.ilmessaggero.it/video/de_falco_contro_salvini_buffone_vai_casa-4685600.html


https://www.corriere.it/politica/21_febbraio_11/renzi-bettini-rottura-25948f5e-6be1-11eb-8932-bc0ccdbe2303.shtml


https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2021/01/12/news/pci-goffredo-bettini-1.358018/


https://www.corriere.it/politica/20_giugno_05/coronavirus-bettini-lockdown-thailandia-leggo-nuoto-chiamo-zingaretti-471f1b7c-a755-11ea-b358-f13973782395.shtml


https://www.fanpage.it/politica/perche-si-parla-di-mandato-esplorativo-e-che-cose/




Pubblicato da Gaetano Scaduto alle 09:52 Nessun commento:
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MERCOLEDÌ 20 GENNAIO 2021


CAPIRE LA CRISI: RACCONTO AUTOIRONICO SULLE RAGIONI DI QUESTO MACELLO




Cos'è una crisi di governo?


In termini puramente giuridici, si parla di crisi di governo quando un esecutivo
rassegna le dimissioni a seguito del mancato ottenimento della fiducia da parte
delle camere.


Ciononostante, la tradizionale instabilità dei governi italiani (ne abbiamo
avuti 66 in appena 75 anni: nello stesso periodo in Germania ne hanno avuti 26),
porta l'idea della crisi di governo ad essere talmente familiare ai cittadini
italiani che il solo minacciarla la rende concreta. La reificazione della crisi
avviene ben prima che essa abbia effettivamente luogo. Avviene sui giornali che
lanciano le notizie, sui tg che aprono tutti i giorni coi servizi politici. La
diretta conseguenza è di portare gli attori della politica a ragionare dieci
mosse avanti, come gli scacchisti, e rende, in un groviglio inestricabile di
dichiarazioni e retroscena, sostanzialmente incomprensibile al cittadino
mediamente informato l'esplicarsi di questi processi.


Con questo articolo ho deciso di provare a sbrogliare questa matassa, di cercare
di restituire linearità alle convolute dinamiche della crisi. Cercherò di farlo,
come sempre quando parlo di politica, mettendo la chiarezza di esposizione
davanti alla precisione e la linearità del racconto di fronte alla meticolosità.
Non per mancanza di scrupolo, ma perché credo che sia il modo più efficace per
cercare di capire, insieme, le cause e le conseguenze, i come e i perché, senza
perderci in complicazioni che ha senso esplorare solo quando si ha almeno la
comprensione del quadro generale.


Per questo vi invito a verificare indipendentemente ciò che vi racconterò, di
modo da potervi fare un'opinione vostra e di ascoltare le mie (perché sì, darò
le mie opinioni) con sano spirito critico e, perché no, scetticismo. 


Dove far cominciare, dunque, questo nostro racconto della crisi? Da molto
lontano, ricostruendo pian piano la storia di questo governo così da poter
evidenziare la catena di eventi che ha portato al punto di rottura.  
Iniziamo quindi da dove cominciano tante altre grandi storie: dal peccato
originale. 


Prologo - Un patto col diavolo


È il 20 di Agosto del 2019 quando Giuseppe Conte, in un discorso al Senato,
rompe l'alleanza con la Lega di Matteo Salvini, assieme al quale aveva governato
per quindici mesi. 


Si tratta di un intervento potente e aggressivo nei confronti di Salvini,
talmente aggressivo da far passare Conte, nello spazio di un discorso,
dall'essere l'alleato del leader leghista all'esserne il principale avversario,
dall'essere il trait d'union dell'alleanza sovranista all'essere il principale
portabandiera dell'antisalvinismo (e dunque dell'antisovranismo).



Giuseppe Conte durante il celebre in Senato contro Salvini


Si tratta di un capovolgimento totale che fa saltare il banco su tutta la linea
e rende sussurrabile l'impensabile. Lo sbocco naturale di quella crisi di
governo, difatti, sarebbero state le elezioni e la fine anticipata della XVIII
legislatura (iniziata nel 2018 e la cui fine naturale è prevista per il 2023),
ma quel discorso innesta nella mente di alcuni leader quel pensiero stupendo che
porta ad immaginare una soluzione diversa: un'alleanza tra Partito Democratico e
Movimento 5 Stelle.


A questo punto, per comprendere bene il contesto, dobbiamo dare un po' di
numeri.


Andare al voto significava, stando ai sondaggi dell'epoca, una sicura
maggioranza per il centrodestra a trazione salviniana. La Lega in quelle
settimane registrava sui sondaggi vette del 37%. Nello stesso tempo il M5S, che
era uscito trionfatore con simili percentuali alle elezioni del 2018, vedeva il
suo consenso dimezzato, al 17.6%. Dopo un anno e mezzo di governo insieme, i due
partiti si erano scambiati le percentuali. Il PD si attestava sul 22%, in
crescita rispetto alle elezioni precedenti, rafforzato da un anno e mezzo
all'opposizione. Infine, Fratelli d'Italia e Forza Italia si attestavano
entrambi intorno al 7%.


Cosa fare, dunque? Andare al voto?


Tutti sembravano volerlo. Lo voleva Matteo Salvini, ovviamente, che sarebbe
diventato l'uomo più potente d'Italia coi numeri a sua disposizione. Lo voleva
Giorgia Meloni, in forte crescita e pronta a scavalcare Berlusconi come numero
due della coalizione di centro-destra. Lo voleva persino Nicola Zingaretti, il
segretario del Partito Democratico.


Aspé, Zingaretti? Cioè Zingaretti voleva andare alle elezioni e far vincere
Salvini? Ma che stai scherzando?


No, Interlocutore Immaginario usato come espediente retorico, non sto
scherzando, ma non saltiamo a conclusioni troppo in fretta.



Nicola Zingaretti e Giuseppe Conte in una foto a caso molto divertente che viene
spesso usata per farli passare come cattivi dei fumetti.


Zingaretti era stato eletto segretario del PD nel Giugno del 2018, a seguito
della sconfitta elettorale del partito tre mesi prima. Sin da subito il nuovo
segretario cercherà di dirigere il PD in maniera radicalmente diversa dal
predecessore. Zingaretti però, nella sua azione di ristrutturazione del partito,
incontra un problema: i parlamentari che sono stati eletti alle elezioni del
2018 sono stati scelti, in larghissima parte, dal suo predecessore: Matteo
Renzi. Tra gli scranni del parlamento, nelle file del Partito Democratico,
siedono soprattutto uomini e donne che hanno più in simpatia Renzi che
Zingaretti, e questa è una situazione che pesa al segretario, che vede limitata
la sua influenza sui gruppi parlamentari e la possibilità di poter condurre
un'opposizione ben coordinata. Il segretario vuole riprendere in mano,
comprensibilmente, il controllo su deputati e senatori del PD. Riconosciuta la
necessità politica e storica, per il Partito Democratico, di trascorrere un
periodo all'opposizione che lo porti, in prospettiva, a rafforzarsi, Zingaretti
vede il voto come l'alternativa migliore per il futuro del proprio partito. 


Tutti d'accordo quindi? Non proprio tutti. Non vogliono andare a votare i Cinque
Stelle, detentori della maggioranza relativa sia alla Camera che al Senato, che
stando ai sondaggi vedrebbero dimezzata la loro rappresentanza parlamentare. 


Ma c'è anche qualcun altro che non è entusiasta all'idea delle elezioni: Matteo
Renzi. L'ex segretario, che in quei giorni fa ancora parte del PD, non ha
intenzione di andare a votare, e non vuole farlo per ragioni esattamente
speculari a quelle di Nicola Zingaretti. Se Zingaretti ha dalla sua la
maggioranza degli elettori del PD, Renzi ha quella dei parlamentari che è, in
questo momento, tutto ciò che gli è rimasto dei tempi ormai lontani in cui il
senatore toscano era l'uomo più potente d'Italia.


Così accade che, con tempismo straordinario, proprio mentre il voto sembrava
ormai l'esito naturale della crisi, Matteo Renzi e Beppe Grillo aprano
all'inverecondo: un'alleanza tra PD e Movimento 5 Stelle. È questo il patto con
il diavolo al quale faccio riferimento all'inizio di questo paragrafo. Entrambe
le forze politiche rappresentavano all'epoca, per i rispettivi elettorati,
sostanzialmente l'anticristo. 


Le parole di Grillo e Renzi sono poche e quasi sussurrate. Sassolini. Due
sassolini che però risultano essere abbastanza per mettere in moto una valanga
che, coinvolgendo poi altri attori (tra cui Dario Franceschini, azionista della
maggioranza silenziosa del PD, e Luigi Di Maio), innescheranno una catena di
eventi che porterà alla nascita del Conte II. 



Alessandro Di Battista (M5S) nel preciso istante in cui apprende la notizia che
il Movimento andrà al governo col PD


Il patto col Diavolo, dunque. Renzi che apre al governo coi suoi acerrimi
avversari, che tante gliene avevano dette nei suoi anni di gloria e ai quali
ancora porta rancore per la persecuzione mediatica nei confronti del padre
Tiziano. E contemporaneamente i 5 Stelle che devono mandare giù il boccone
amarissimo di andare al governo coi nemici giurati: il PDMenoElle, il Partito di
Bibbiano e chi più ne ha più ne metta, contro il quale per cinque anni avevano
scatenato un'opposizione selvaggia e che poi dal governo avevano tronfiamente
bullizzato. Da entrambe le parti il boccone da mandare giù è amaro ma
necessario, come gli antibiotici che ci davano da bambini. 

A guadagnarci più di tutti è Giuseppe Conte, che rimane in piedi, quasi l'unico,
dopo la tempesta, in un mondo di governo nuovo e opposto a quello al quale era
abituato, con un ruolo inedito, centrale e rinvigorito. Dall'essere il vice dei
suoi vice al diventare faro dei progressisti. Ancora una volta, e non sarà
l'ultima, Giuseppe Conte si dimostra il Forrest Gump della politica italiana. Un
uomo che si ritrova sempre, inspiegabilmente, al posto giusto al momento giusto.



Giuseppe Conte e Rocco Casalino nel primo giorno del Conte II


Atto I - All'inizio del nuovo mondo


Con le scelte politiche bisogna fare i conti. La nascita del governo Conte II
avviene sotto la narrazione (più o meno veritiera, spetterà al lettore
deciderlo) che quel governo e quell'alleanza siano stati prodotti per
scongiurare il rischio di elezioni, che avrebbero avuto come conseguenza la
maggioranza più a destra della storia della Repubblica. Una maggioranza che
avrebbe non solo governato con numeri sbalorditivi (tali da poter addirittura
approvare modifiche alla costituzione), ma anche eletto il successore di Sergio
Mattarella. Renzi, più di tutti, rivendica per sé stesso il merito di "non aver
lasciato il paese in mano a Salvini", e con lui molti altri esponenti della
maggioranza. Tutto ciò tacendo, segreto di Pulcinella, il fatto che fino al
giorno prima lo stesso presidente aveva Matteo Salvini come vicepremier.


Poco dopo la nascita del governo, Renzi fa la sua mossa per riacquisire
centralità nelle decisioni dell'esecutivo e consuma, dopo dodici anni, il suo
divorzio col PD. Si tratta di una separazione che ha grandi connotazioni
simboliche. Il PD era il partito che l'aveva prima osteggiato, ai tempi in cui
era una scheggia impazzita che era arrivata a diventare sindaco di Firenze
lanciando anatemi sui vecchi da rottamare; poi amato quando aveva visto in lui
il giovane ed energico leader che l'aveva portato alle vette percentuali più
alte della propria storia; e infine additato come causa di tutti i suoi mali,
elettorali e non, dopo la sconfitta del 4 Marzo 2018. Il partito del quale per
cinque anni, più di chiunque altro, era stato segretario. 


Renzi fonda Italia Viva, un partito personale in piena regola, composto dai suoi
fedelissimi, il Giglio magico, e totalmente sotto il suo controllo. Un partito
funzionale al suo leader, che trova in esso la propria ragion d'essere ed il
proprio fine. Quando li si vede camminare per le strade di Roma, quelli di
Italia Viva, sembrano usciti da uno di quei film d'azione in cui il protagonista
riunisce una banda di professionisti altolocati per mettere a segno il colpaccio
alla banca centrale. Oppure, ancora meglio, viene in mente la scena iniziale del
Divo, di Paolo Sorrentino.



Presidente, sta arrivando una brutta corrente...


Passano cinque mesi, il governo va avanti e le vicende politiche ordinarie
procedono con lui. Verso la fine di Febbraio, l'Italia si ritrova suo malgrado
ad essere uno degli epicentri della più grande ondata pandemica della storia
contemporanea. Niente, in politica come altrove, sarà più come prima. 


Tempi duri, quindi, che richiamano decisioni forti e veloci. Tempi complessi,
dove ogni avvenimento politico genera conseguenze macroscopiche che
riecheggeranno negli anni con le loro implicazioni. Tempi nei quali c'è bisogno
di sicurezze, di volti familiari, di scorciatoie cognitive che ci rassicurino
nello smarrimento, che diano ordine al caos, che ci offrano una luce in fondo al
tunnel. I tempi duri, creano leader forti, o almeno rendono forti, agli occhi di
chi ne ha bisogno, i leader del momento. 


Quindi ecco che nei primi mesi della pandemia la popolarità di Giuseppe Conte
arriva alle stelle, facendo di lui il personaggio politico in assoluto più
popolare del paese. Una grossa rivincita da parte del signor Nessuno che ai
tempi del suo primo governo veniva schernito per la sua incapacità di essere
protagonista della scena. La pandemia, ha l'effetto di offrire a Conte una
possibilità di rivalsa su tutti coloro che lo additavano di essere un leader
insipido, incolore e inodore. 


L'emergenza conferisce a Conte una centralità mediatica che nessuno avrebbe
osato immaginare. Tutta Italia inizia ad aspettare, nervosamente, le sue
conferenze stampa in diretta all'ora di cena. Si pende dalle sue labbra per
sapere cosa ne sarà della nostra vita quotidiana, dove è andata a finire e
quando tornerà la nostra normalità. E Conte si improvvisa padre e si esibisce
davanti a tutta Italia sfoggiando la sua retorica melliflua e ottimista, che può
piacere o meno (io stesso sono oscillante su questo tema) ma che resta senza
dubbio impressa, complice anche il momento drammatico: "Allontaniamoci oggi per
abbracciarci più forte domani". E poi i post su Facebook, i tweet, i discorsi in
parlamento. Ovunque e tutti i giorni si parla di Conte.





Conte durante una delle puntate della fiction più seguita d'Italia


Ma oltre alla centralità mediatica, gli conferisce anche una centralità politica
e decisionale senza precedenti. Lo strumento legislativo del DPCM (il Decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri) viene usato con cadenza regolare per
attuare i provvedimenti legati all'emergenza sanitaria. Si tratta di uno
strumento da usare con parsimonia in uno stato democratico, poiché consente al
potere esecutivo (il governo) di esercitare un potere legislativo (che spetta al
parlamento). Oltre a ciò, Conte nomina il commissario straordinario per
l'emergenza e, successivamente, è pronto a nominare uomini di fiducia per
gestire i fondi della ricostruzione. Quella che per anni era stata indicata come
la sua debolezza, ovvero l'essere esterno ai partiti, inizia a diventare la sua
forza: l'indipendenza dalle logiche di partito gli dà la possibilità di agire
fuori dai condizionamenti. 


Passa la prima ondata e passa anche la seconda, e la nostra vita ormai si adatta
ai ritmi sincopati delle aperture e delle chiusure, in uno stato di emergenza
che dà l'idea di tempi così catastrofici e al contempo così normali, dove le
strade sono deserte o al massimo popolate da pochi volti resi estranei dalle
mascherine, ma in televisione i programmi di varietà e intrattenimento vanno in
onda lo stesso. Dove i cinema e i teatri sono e restano chiusi, ma il teatro
della politica non smette di intrattenere.


È in questo quadro, circa alla metà di Dicembre del 2020, che avviene quella
magica reificazione di cui parlavo in testa a questo articolo. La minaccia
velata della crisi apre la crisi. Il sussurro di volerla innescare è esso stesso
l'innesco. I giornali e le televisioni iniziano a parlarne e la concretizzano.
Il corso degli eventi segue il prevedibile e la politica fa il resto.


Vabè ho capito Gaetà, però ora basta con ste menate intellettualoidi e rispondi
all'unica domanda che chi sta leggendo questo articolo vuole che affronti:
perché questa crisi di governo?


Hai ragione Interlocutore Immaginario: è arrivato il momento di affrontare
questa domanda. 


Atto II - La crisi e i suoi perché


Per rispondere efficacemente sul perché c'è questa crisi di governo sarà
necessario aggiungere complessità alla domanda, così da poter cercare insieme di
dare una spiegazione che fili in tutti i suoi punti. Quindi, invece di chiederci
solamente "Perché c'è la crisi di governo?" sarà necessario chiederci:


- Perché la crisi adesso?
- Per quali cause?
- Per quali fini?
 
Perché la crisi adesso?


Mattarella che mannaggia mancava così poco alla fine del mandato e invece si
ritrova in mezzo ad un'altra crisi..


Questa è l'unica domanda alla quale possiamo rispondere senza incertezze. La
crisi viene aperta adesso perché oggettivamente questo governo nasce da quel
peccato originale, quel patto col diavolo tra Renzi e Grillo di cui parlavamo
poco fa, con il quale prima o poi si sarebbero dovuti fare i conti. Non solo. La
scissione di Italia Viva dal Partito Democratico si consuma a poche settimane
dalla nascita del governo Conte II, e ciò significa che, nel momento in cui sono
state assegnate le caselle di governo, i renziani non sono stati considerati
come una componente della maggioranza (dando quindi a loro magari un ministero
di peso), ma come una corrente interna al PD, alla quale sono stati assegnati
giusto due ministeri di secondo piano: l'Agricoltura e la Famiglia. Una crisi,
per rimescolare le carte e assolversi dal peccato originale, era quindi già in
nuce nell'infanzia di questo governo. 


Il mondo però si è messo di mezzo, è arrivata la pandemia ad oscurare qualunque
manovra politica. Serviva unità nazionale ed era imperativa unità nella
maggioranza, per cui la crisi è rimasta lì, nello stato latente, a covare ed
attendere il momento adatto per saltar fuori. L'emergenza non è finita, è vero,
ma con il piano vaccinale in corso è possibile dire che il peggio è passato. Non
solo, questa crisi, se s'ha da fare (e, per quanto abbiamo detto, s'ha da fare)
deve avere necessariamente luogo prima di Giugno, in quanto da Luglio in avanti
inizia il semestre bianco, ovvero gli ultimi sei mesi dell'attuale Presidente
della Repubblica, durante il quale quest'ultimo non ha il potere di sciogliere
le camere e mandare il paese al voto. Ciò significa che se Renzi avesse
innescato questa crisi a Luglio avrebbe certamente potuto portare alla caduta
del governo, ma non avrebbe avuto nel suo arsenale tattico lo spauracchio del
voto, che per ragioni costituzionali avrebbe potuto aver luogo solo a Marzo o
forse Maggio 2022. Il momento, dunque, non poteva che essere adesso.


Per quali cause?


Renzi presenta la sua controproposta al Recovery di Conte: il piano Cultura,
Infrastrutture, Ambiente e Opportunità. Che mattacchione. 


C'è il discorso del peccato originale, certo, ma non basta. Quelle che Renzi e
compagni hanno portato come motivazioni per l'innesco della crisi possono o meno
essere giudicate pretestuose a seconda della malizia con cui la si veda, ma vale
la pena di passare in rassegna i motivi per i quali Matteo Renzi dice di aver
innescato la crisi.


C'è anzitutto la questione del protagonismo politico di Giuseppe Conte,
protagonismo che si è manifestato soprattutto nella gestione del piano per il
Recovery Fund. Il Recovery è il piano Marshall del nostro secolo, si tratta di
una quantità di fondi abnorme, destinata a ricostruire in meglio ciò che la
pandemia ha distrutto, si tratta di spendere e spendere tantissimo per gettare
le fondamenta per la ripresa economica di questo paese nei prossimi venti anni.
È un'occasione che non solo non può andare sprecata, ma deve imperativamente
essere sfruttata al meglio delle proprie potenzialità. Giuseppe Conte aveva
inizialmente pensato, come struttura attuativa del Recovery, ad un impianto
gerarchico (alcuni giornali lo chiamavano la piramide) composto da commissari di
sua nomina e di sua fiducia. Questa struttura, sintomatica di certe velleità
protagonistiche, è stata accantonata, anche a seguito delle proteste di Renzi (e
non solo). 


C'è poi la questione dell'allocazione dei fondi del Recovery. La prima bozza del
piano difatti prevedeva, tra le altre cose, di destinare solo nove dei 209
miliardi alla sanità. Una cifra che fa storcere il naso, soprattutto se si pensa
che questa crisi è stata innescata da una pandemia che, se avesse trovato una
sanità più pronta ad affrontarla, sicuramente avrebbe causato una quantità non
indifferente di danni e morti in meno. Non dimentichiamo che i vari lockdown,
totali o parziali, hanno avuto luogo soprattutto per il fatto che i posti in
terapia intensiva in quasi tutte le regioni non erano sufficienti a far fronte
all'emergenza. Quindi logica vorrebbe un investimento maggiore nella sanità, che
difatti a seguito delle critiche, talvolta feroci, portate avanti anche da
Renzi, è avvenuto. Oggi la cifra da destinare alla sanità è 20 miliardi. Meglio,
se chiedete a me, ma non abbastanza. 



L'allocazione dei fondi nella prima bozza del recovery fund


Un altro casus belli è il MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, un fondo di
36 miliardi di euro (di prestiti) da spendere esclusivamente in Sanità. Attivare
o meno il MES è una questione divisiva nella maggioranza, perché avrebbe
conseguenze complesse e non facilmente prevedibili, che non starò ad esporre in
questa sede. Renzi, però, il MES lo vuole, e tanto. Conte, da parte sua, si
mostra timido e cerca di sviare la questione, anche perché tenuto in scacco da
un Movimento 5 Stelle schierato categoricamente sul No al MES.


Infine, c'è la questione della delega per i servizi segreti, una funzione che
per prassi il presidente del consiglio cede ad un uomo di fiducia, ma che Conte
aveva detto, fino all'ultimo, di voler riservare per sé stesso. Questo fatto
veniva portato ancora sul piatto come sintomatico dell'eccessivo protagonismo
politico del Presidente del Consiglio. Su questo punto Conte cederà solo nel
discorso alla Camera del 18 Gennaio.


La questione delle cause dunque è composta da temi sui quali Conte sembrerebbe
alla fine sia stato disposto a cedere (in gran parte). Anche all'occhio meno
malizioso, dunque, le cause indicate da Renzi non possono bastare come
spiegazione del "Perché c'è 'sta crisi?". Possono costituire una parte della
risposta, certamente, ma non riescono a soddisfarci. Per cercare quindi questa
soddisfazione, dovremo addentrarci nei fini. 


Per quali fini?


Le super sexy "poltrone", il cui irresistibile charme è stato invocato da tutte
le parti in causa durante questa crisi, adottando una retorica che, detto
francamente, ha proprio stufato. 


Qui, purtroppo, non possiamo avere certezze, ma possiamo esporre alcune ipotesi
più o meno supportate dai fatti. 


Vi è anzitutto una lettura psicanalitica, che molti giornalisti tengono a cuore
e che sinceramente lascia il tempo che trova, ma che contribuisce a donare una
certa caratterizzazione ai nostri personaggi, che di sicuro ci rende, se non
meno veritiera, almeno più intrigante questa vicenda. 
Renzi è dipinto come un narcisista con uno smodato bisogno di stare al centro
dell'attenzione, bisogno che il suo ruolo di leader di un piccolo partito porta
a lasciare inappagato. Il suo sarebbe quindi, secondo questa lettura, un
suicidio narcisista, con l'obbiettivo di tornare sotto i riflettori e magari da
questo raccogliere qualche consenso. Francamente difficile da credere. 


C'è poi l'ipotesi dell'ultima spiaggia. La fiducia verso Renzi è passata dal 74%
al 12% nello spazio degli ultimi sei anni. Dall'essere l'uomo più popolare
d'Italia a quello più impopolare. Tutto ciò che gli rimane è il manipolo di
fedelissimi che l'hanno seguito in Italia Viva. Diciotto senatori e trenta
deputati: pochi, ma abbastanza per pesare e tenere la maggioranza per i
proverbiali zebedei. Solo attraverso le manovre parlamentari del suo partito
Renzi potrà essere in grado di risalire nei sondaggi (che oggi lo darebbero
addirittura fuori dal parlamento). Solo riacquisendo visibilità e potere potrà
rendersi titolare di alcune scelte del governo (il MES, certi aspetti della
gestione del Recovery, etc) che potrebbero conferirgli, agli occhi dell'opinione
pubblica, se non approvazione quantomeno un certo credito. 


Infine, c'è l'ipotesi strategica. Renzi vuole avere un peso materiale nelle
decisioni del governo, e si è reso conto che il modo più efficace per avere un
peso non è all'interno della maggioranza, bensì in quella linea sottile che
separa l'esterno della maggioranza dall'opposizione, in quel sottobosco
parlamentare all'interno del quale avvengono i veri rimescolamenti che decidono
quali provvedimenti verranno approvati e quali verranno bocciati. Con una
maggioranza così sottile come quella che dovrebbe avere Conte in assenza di
Italia Viva, i voti di Renzi e compagni risulteranno acqua nel deserto per
realizzare qualunque legge. In questa privilegiata posizione, Renzi si
troverebbe a trattare, su ogni singolo provvedimento, da una posizione libera e
svincolata, che gli permetterebbe di bocciare e rendere virtualmente
inottenibile qualunque obiettivo del governo che non riesca ad incontrare il suo
assenso, e il tutto senza doverne rendere conto alla maggioranza. 



Visto che l'abbiamo mostrata per Conte, ecco anche per Renzi una di quelle foto
che usano i social media manager della destra per farlo sembrare
cattivissimissimo.


Probabilmente c'è una punta di verità in tutte queste spiegazioni, e ce ne sono
anche altre che non stiamo ad esporre (qualcosa dovrò pure tralasciarla,
altrimenti non finiamo più). Quel che è certo è che il 13 di Gennaio Renzi ha
deciso di ritirare la delegazione di Italia Viva dal governo, lanciando la sfida
a Conte, che decide di portarla in Parlamento.


Atto III - La parlamentarizzazione della crisi


Senza Italia Viva, il premier deve cercare in parlamento i voti per avere la
fiducia. È partita dunque la ricerca dei responsabili o costruttori, come
preferiscono chiamarli dagli ambienti vicini a Conte (con un'operazione di
reframing semantico da manuale della comunicazione politica).


In questa frenetica ricerca si intrecciano mille storie e mille personaggi. Da
figure mitologiche del sottobosco centrista che vengono riesumate dalle loro
tombe politiche e corteggiate per portare voti alla maggioranza, come Clemente
Mastella e Bruno Tabacci, passando per il seduttore letale Rocco Casalino, che
trascorre le giornate a scrivere su Whatsapp a deputati e senatori per portarli
dalla parte del premier, fino alla figura potente e misteriosa di Goffredo
Bettini, consigliere di Zingaretti sempre più vicino a Conte, al quale sembra
aver dato tutto il suo supporto per farlo uscire illeso da questa crisi. E poi
mille dinamiche dalle più alte alle più banali: senatori a vita richiamati
dall'America per presentarsi in aula a votare la fiducia, Liliana Segre che
sfida dall'alto dei suoi novant'anni il coronavirus per essere presente al
voto. 


Il 18 di Gennaio Giuseppe Conte si presenta alle camere e, in un discorso lungo
55 minuti, chiude definitivamente la porta a Renzi (con il quale, dice lui,
ormai è venuta a mancare una fiducia personale che non è più possibile
riconquistare) e apre a chiunque voglia unirsi alla sua maggioranza, usando una
serie di parole chiave per far fischiare le orecchie dei destinatari di quegli
appelli. Si richiama alle tradizionali culture politiche europeiste: liberale,
popolare, socialista. Alla Camera il governo raccoglie la fiducia di 321
deputati, dove la maggioranza assoluta è 316. Ma la vera sfida, e la vera
incognita, è per il giorno dopo al Senato. 



Il senatore Lello Ciampolillo (premio miglior nome da cartone Disney 2017), che
voterà la fiducia al governo all'ultimo secondo, ritardando di una mezz'oretta
la comunicazione sull'esito delle votazioni e causandomi non poco stress.


In Senato Conte ripete il discorso del giorno precedente alla Camera, con
qualche piccola modifica qua e là per risultare più seducente nei confronti dei
senatori oscillanti. Nel pomeriggio prende la parola Matteo Renzi, che si lancia
in un discorso concitato e ben costruito, che ruota attorno al concetto del
kairos, il momento opportuno, l'occasione da cogliere in questo tempo
straordinario (il Recovery). "Ora o mai più", ripete Renzi a ritmo cadenzato.
Conte replicherà stanco e piccato, con la voce graffiata dalla stanchezza e,
probabilmente, dal disperato bisogno di un bicchiere d'acqua. Una scena
paradossale ha poi luogo durante la votazione, quando due senatori incerti,
Ciampolillo e Nencini, votano la fiducia al governo allo scadere del tempo
(chissà se gli è stato detto qualcosa in quegli ultimi secondi), e l'annuncio
del risultato viene ritardato dal VAR in Senato. Alla fine il governo otterrà la
fiducia con 156 voti a favore, 140 contrari e 16 astenuti. Una maggioranza
relativa risicatissima, ma abbastanza per sopravvivere. La crisi è stata
scongiurata, ma solo per l'astensione di quei 16 senatori del gruppo di Italia
Viva, che continua a contemplare la possibilità di far cadere questo governo. In
questo momento dunque tutto è appeso ad un filo, e a Conte adesso spetta il
compito di trovare persone disposte a costruire con lui una nuova e più coesa
maggioranza. 


Quello che succederà nelle prossime settimane è incerto e non è oggetto di
questo racconto. Noi ci fermiamo qui, con un governo che sopravvive e annaspa ma
non affonda, alla ricerca di una forza e un'unità che sono imperativi per il
momento che stiamo attraversando. Dal canto mio, spero vivamente che questa
unità la si trovi, perché se c'è una cosa che questa crisi ci ha evidenziato è
che quello che stiamo vivendo è davvero un kairos. È il momento di cogliere
un'occasione che non tornerà più, è il momento dove si decide il nostro futuro.
Le occasioni che l'Italia dovrà cogliere, nei prossimi mesi, determineranno i
prossimi vent'anni. Non ci resta che augurarci che le cose vadano per il meglio.
Comunque andranno, se vorrete, potremo raccontarle insieme.


Vi ringrazio per aver letto questo articolo e aspetto di sapere le vostre
opinioni. Voglio anche ringraziare Chiara, Leonardo e Aurora per le correzioni e
i suggerimenti. 


Alla prossima.


- Gaetano Scaduto 













Pubblicato da Gaetano Scaduto alle 09:37 1 commento:
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